IN NOME DI QUALE DIO IMPICCANO UN RAGAZZO DI 23 ANNI

Siamo abituati alle catene di montaggio dell’orrore, grandi attentati e stupide guerre con numeri altissimi di morti ammazzati. Cosa può essere allora un morto solo, giustiziato in Iran da chi comanda, primo di una macabra lista d’attesa che ne prevede già altri undici?

Che cosa può essere? Da ore e ore è uno spaventoso incubo che grava sulle nostre coscienze, se ancora ne abbiamo una. Mohsen aveva 23 anni, maledizione. E’ morto con la colpa di aver protestato per la libertà. A noi che la libertà ce l’abbiamo nel Dna da quando nasciamo, lì depositata dai nostri padri a costo di altrettanto sangue e altrettante atrocità, questa cosa di perdere la vita per la libertà suona un po’ ritrita, come un vintage d’altri tempi, perchè ormai la libertà la rimastichiamo e magari la sputiamo come un chewing-gum senza più sapore, arrivato persino un po’ a noia.

Ma resta il fatto che in questo mondo nostro, il nuovo mondo, a poca distanza da noi un ragazzo di 23 anni viene impiccato con regolare sentenza di Stato, colpevole del reato di “Inimicizia contro Dio”.

Così, proprio così. Sembrano le sentenze della nostra antica Inquisizione, di quell’indimenticato Torquemada che la guidò con pugno da vero leader sul finire del Quattrocento. Mezzo millennio dopo, riecheggiano gli stessi toni e lo stesso frasario. Inimicizia contro Dio.

Ma di quale Dio parlano, questi implacabili uomini vestiti di nero. A nome di quale Dio comandano, perseguitano, giudicano e condannano a morte. Quale Dio può aver concesso loro questo mandato, con pieni poteri, assoluti e indiscutibili, un lugubre potere di vita e di morte che non risparmia nessuno. Certo non può essere lo stesso Dio che noi ci accingiamo a festeggiare, il Dio della misericordia e della tolleranza, il Dio che diventa uomo partendo dalla condizione basica ed essenziale di una mangiatoia.

Mohsen è un morto solo, uno al cospetto di tutti i morti che tutti i giorni annotiamo dal fronte delle guerre, dagli attentati, dalle sciagure colpevoli. Che cosa sarà mai questo morto solo, cosa può contare Mohsen con i suoi 23 anni sacrificati inseguendo un ideale.

Dovremmo fermarci un minuto, non un formalissimo minuto di silenzio, ma magari un interminabile minuto di rabbia e di grida, per rammentare e rifare nostro l’intramontabile detto del Talmud, “chi salva una vita salva il mondo intero”. Potremmo pure attualizzarlo e ribaltarlo, dicendo che “chi uccide una vita uccide il mondo intero”. Il senso sarebbe sempre lo stesso. In Iran c’è un potere che definiamo teocratico, un regime politico che il vocabolario così definisce: “Forma di governo in cui la sovranità sia simbolicamente esercitata dalla divinità, storicamente identificata nel governo di uomini considerati gli interpreti più attendibili della volontà divina (profeti, sacerdoti, ecc.), o in quello di re o capi ai quali vengano attribuiti caratteri e prerogative divini”. In nome di questo mandato del Cielo, il potere si attribuisce prerogative taumaturgiche, dichiaratamente trascendentali, arrivando persino a giustiziare un ragazzo di 23 anni perchè osa dissentire.

Almeno stavolta il mondo civile non dovrebbe limitarsi a prenderne atto, tuttalpiù censurando accigliato con dichiarazioni di maniera, come si usava una volta nella buona società, ma senza vibrare più di tanto nel profondo dell’animo, nell’area quella sì vagamente divina dei migliori sentimenti.

In questi anni abbiamo imparato anche a confezionare in un certo modo gli slogan più edificanti, declinati ogni volta nella situazione specifica, stavolta declinati a questo modo: siamo tutti Mohsen. Qualcos’altro si inventeranno i governi per mandare segnali concreti al regime iraniano, tipo le solite sanzioni economiche, che poi magari finiscono per rendere ancora più pesanti le condizioni di vita della povera gente.

Ma non c’è gesto simbolico, non c’è reazioni formale, non c’è niente che possa emendare anche solo in parte l’atrocità di un ragazzo 23enne giustiziato nel 2022 per “Inimicizia a Dio”, nel fiore degli anni, nel pieno della stagione migliore, quando fioriscono i sogni e gli ideali. Se ci stiamo tutti raccontando che Putin presto o tardi dovrebbe finire davanti al tribunale dell’umanità, dobbiamo chiederci se sia più sopportabile e meno imperdonabile questa unica condanna a morte. Non può essere così. Non è il numero che fa l’indignazione e il dolore. Non è il numero che fa la differenza, quando si gioca a Dio: la vita è vita, e chi ne uccide una uccide il mondo intero.

Un pensiero su “IN NOME DI QUALE DIO IMPICCANO UN RAGAZZO DI 23 ANNI

  1. Cristina Dongiovanni dice:

    Buongiorno Gatti, oggi copio ed incollo il suo pensiero sul mio. E lo estendo anche alla situazione in Ucraina per quanto riguarda quello che non riescono a fare i governi “progrediti, moderni, democratici” , i governi e noi. Eppure, è solo questione di volontà, io ne sono certa. Stringerci veramente attorno a chi ha bisogno di noi, se non tutti tanti, tantissimi. Invece continuiamo a comportarci come se tutto fosse inevitabile. Come se la nostra vita valesse più di quella degli altri. Non dico altro e anche oggi, che è domenica, cucinerò qualcosa di diverso, per allietare il nostro pasto.

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