IMPARARE DAI GIOVANI GIAPPONESI IL TERRORE DEL TELEFONINO

Se n’è occupata Laura Ilai Messina, scrittrice italiana di successo che racconta nei suoi libri il Giappone, dove vive e lavora da quasi 20 anni. Una premessa d’obbligo per scantonare quella che sembra avere tutti i connotati di una fake: il 72,7% dei nipponici compresi tra i 20 e i 30 anni ha la fobia di parlare al telefono. Quindi evita, quindi si limita allo stretto indispensabile, quindi se può ignora o tiene spento.

Quello che per noi ha sostituito diari, rubriche, enciclopedie, giornali, persino radio e tv, per quei signori là è un nemico. Una trappola.

Di cosa hanno paura, esattamente? Lo studio condotto dalla Sofutsu di Tokyo su un campione di circa 600 persone, dice che questi giovani hanno l’ansia di rispondere alla chiamata e di conversare anzitutto per la loro natura di non sprecare parole, per l’atavico rispetto della privacy propria e altrui, ma soprattutto di non capire i “non detti” dell’interlocutore. I suoi silenzi, insomma. Non a caso vengono definiti “muon-sedai”, generazione silenziosa.

“Il numero di giovani che soffrono di ‘fobia del telefono’ potrebbe essere in aumento a causa della diffusione delle funzioni di messaggistica dei social media, i quali hanno ridotto drasticamente le opportunità di parlare al telefono”, afferma Sofutsu nella nota introduttiva al rapporto pubblicato.

Secondo il rilevamento, il numero medio di telefonate a cui hanno risposto sul posto di lavoro i partecipanti al sondaggio è stato di 7,4 al giorno e, per fascia di età, sono stati gli over 50 ad utilizzare di più il telefono, con una media di 12,7 volte al giorno. Il tempo medio trascorso per chiamata è stato di 3,1 minuti: considerando una media di 245 giorni lavorativi all’anno, ciò significa che i lavoratori intervistati trascorrono in media circa 93 ore all’anno al telefono.

Mi viene in mente che alla base di ogni cosa utile alle soglie del 2024 ci sia la moderazione, l’equilibrio nell’uso che se ne fa: un cellulare non è una bottiglia di whisky, ma dà dipendenza comunque. Dall’altra parte dell’emisfero hanno – è chiaro – modo e cultura diversissime dalla nostra per quanto riguarda il senso civico, il rapporto con il prossimo, il rispetto per molte cose tutt’altro che futili o secondarie, alle quali noi (mi limito al plurale majestatis riferito agli italiani per non scivolare nel qualunquismo) non diamo la benché minima importanza, non sentiamo nemmeno la necessità di pesare.

Tra le altre, mi colpisce però quella paura dei “non detti” dell’interlocutore. Le sue pause, i suoi silenzi appunto, che un significato hanno assai più sovente e incisivi delle parole. “I non detti e gli impliciti che a volte governano le relazioni, passano spesso inosservati e non di rado sembrano disconfermati sul piano della comunicazione verbale. Eppure si rivelano elementi potenti che possono vincolare i partecipanti, loro malgrado, in assetti relazionali a volte disfunzionali in cui nessuno è realmente libero di essere se stesso”, cito da Daybyday Network.

La brace qualche volta è sotto la padella, in sostanza, nei nostri rapporti quotidiani, ma mentre la gestualità visiva nel contatto diretto è visibile e interpretabile, in una conversazione di persona o al telefono i “non detti” finiscono col pesare come macigni.

“Parliamone, lo stretto necessario, ma di persona”, sembra rispondere alla chiamata la muon-sedai. Una via strategica per ridurre le chiacchiere al minimo indispensabile, ma anche per poter leggere quelle che non vengono pronunciate. Come quando si sta a tavola insieme per cui semplicemente guardandoci, scrutando uno sguardo, un’espressione, una testa china, viene naturale fare la più bella domanda del mondo: “Come stai?” e poter così aiutare il prossimo a dire, piuttosto che a tacere. Quanto basterebbe per una migliore convivenza.

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