IL VOLGARE TEATRO DELLA COMMISSIONE C…

di MARIO SCHIANI – Il sipario si alza sull’aula austera di una Commissione permanente della Camera dei deputati. A suggerire che potrebbe essere la Commissione cultura, un busto di Dante e, sopra lo scranno del presidente, un’iscrizione latina. Significa “Rimozione forzata sui due lati a giorni alterni” ma nessuno si è mai preso la briga di tradurla.

Entrano il Primo Personaggio e l’Ospite (è importante notare che i due assomigliano rispettivamente a Vittorio Sgarbi, deputato e membro della Commissione, e a Domenico Arcuri, commissario straordinario per l’emergenza Covid). Il Primo Personaggio si rivolge all’Ospite e lo aggredisce: «Vediamo di non prendere per il c… i bambini con le mascherine». Il Regista interrompe: «Non puoi dire c…. Non c’è scritto c… sul copione. C… non è una parola che si può usare qui». Sgarbi, pardon, il Primo Personaggio, replica: «È una parola della lingua italiana».

Se davvero fosse una commedia, o una farsa, a questo punto il regista imporrebbe una pausa per risolvere la questione una volta per tutte. Con le buone o le cattive, riuscirebbe a convincere il Primo Personaggio che non è il caso di inserire a capriccio del turpiloquio nel copione. In scena si sta cercando di creare un mondo coerente e verosimile e l’unico modo per farlo è attenersi a parole coerenti e verosimili con quel mondo. Non importa che nel dizionario ci siano espressioni come “c…” oppure come “ostensibile” e “imperocché”: la Commissione cultura per svolgere il suo compito esige si usino parole con essa compatibili. Le altre, turpiloquio compreso, non aiutano. Anzi, danneggiano.

Ma qui, purtroppo, non siamo a teatro, come avremmo voluto immaginare, ma in un posto molto più fasullo: la realtà. E il dialogo di cui sopra è proseguito diversamente. Ovvero con Vittorio Sgarbi che, al rimprovero del presidente Luigi Gallo, è sbottato: «Vaff… è lo slogan della forza politica che lei rappresenta (i 5 Stelle, ndr). Siete andati al governo con quello slogan e ora rompete il c… sulle parole». Gallo a quel punto si è in effetti rotto il c… e ha sospeso la s… Scusate: la seduta.

L’episodio ricorda una famosa battuta del film “Il dottor Stranamore”: «Signori, non potete azzuffarvi qui: questa è la Stanza della Guerra!». In questo caso, però, il paradosso non fa sorridere perché, in effetti, nella Stanza della Cultura bisognerebbe evitare di alimentare il dibattito con i termini meno rispettabili della nostra lingua. Per carità: Sgarbi potrebbe obiettare che non solo il dizionario ma anche molta letteratura pullula di parole licenziose ed espressioni volgari. Tutte però hanno (o dovrebbero avere) un fine: quello di rimandare al lettore impressioni necessarie allo scopo artistico dell’opera. Le parolacce in Commissione cultura sono invece semplicemente fuori posto, non servono ad alcuno scopo, se non quello di ribadire la pubblica esuberanza del deputato e critico d’arte, e semmai confermano – in questo Sgarbi ha ragione – che la politica tutta ha fatto dell’invettiva e della volgarità un linguaggio necessario ai suoi scopi di istigazione e mercenaria visibilità. Lo sforzo comune dovrebbe essere quello di riportarla all’ordine, ovvero di aprirla a una comunicazione più ragionevole e utile. L’impressione è che si proceda senza tentennamenti sulla strada opposta, quella indicata dal focoso Sgarbi. Anzi, c’è chi voleva passare al voto per rinominare la Commissione cultura in “Commissione c…” Per fortuna non è stato raggiunto il numero legale: un gruppo di deputati si era ritirato per la siesta nell’aula della Commissione attività produttive.

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