IL VERO CORAGGIO E’ ANDARE AL FUNERALE DI NAVALNY

Basta una passeggiata in qualunque città del mondo per imbattersi in una profusione di monumenti al coraggio. La tradizione scultorea lo rappresenta attraverso un limitato assortimento retorico: lo troviamo a cavallo, in marcia, sempre impettito, spesso spadaccino, non di rado lanciato all’assalto dietro la baionetta sguainata.

E’ il coraggio dei libri di storia, quello dei Re numerati come posti allo stadio e dei generali carichi di medaglie sul petto e di morti sulla coscienza. Questa rappresentazione del coraggio è radicata, solida, appunto perché fusa nel bronzo o scolpita nel marmo. Il coraggio vero, però, è tutt’altra cosa ed è più difficile da scoprire e da osservare. E’ come un fiore ostinato ma allo stesso tempo timido: spunta in luoghi difficili e in condizioni climatiche ostili, ma viene presto cancellato, negato, dimenticato. Per forza: è questo il coraggio che fa più paura. L’altro, quello monumentale, alla lunga non incute timore neppure ai piccioni, che infatti si sa come finiscono per decorarlo.

Un limpido esempio di coraggio vero lo abbiamo avuto sotto gli occhi nei giorni scorsi. Lo hanno dimostrato quelle migliaia di persone che, a Mosca, hanno voluto partecipare ai funerali di Alexei Navalny, principale oppositore di Vladimir Putin, a lungo incarcerato e recentemente colto da “sindrome da morte improvvisa”, un malanno molto diffuso in chi non la pensa come i dittatori.

Uscire di casa, raggiungere il quartiere moscovita di Mar’ino, a circa venti chilometri dal centro della città, è stata un’impresa notevole e non solo perché, in questi giorni, la temperatura lassù va spesso sottozero. Il gesto, straordinario, ammirevole, è stato quello di passare sotto il naso di un regime ormai talmente avvitato nella paranoia e immerso nella falsificazione da essere arrivato a riscrivere, per bocca del suo leader, la storia della Seconda guerra mondiale scatenata, secondo questa fantasiosa versione, dalla Polonia che non volle cedere alla Germania – “in termini amichevoli” – parte del suo territorio. Sfidare chi ragiona così anche solo partecipando a una cerimonia funebre, gridando un paio di volte al cielo il proprio desiderio per una “Russia libera”, richiede un coraggio leonino, e poco importa se nessuno scultore avrà modo di fonderlo nel bronzo.

Nell’ultimo episodio di “Andrej Rublev”, film capolavoro del russo Andrej Tarkovskij, uscito nel 1966, assistiamo all’impresa di un giovane impegnato a fondere una grande campana, commissionatagli da un Duca. Siamo nella Russia del XV Secolo e gli sforzi del giovane, figlio di un celebre maestro campanaro morto di peste, sembrano destinati al fallimento, tanto più che per ottenere l’incarico ha mentito, sostenendo di aver ereditato il segreto per la perfetta fusione del bronzo (che il padre invece non gli ha mai confidato). Eppure ostinazione, tenacia, orgoglio e perfino paura producono il miracolo: la campana esce integra dal grande calco e, alla prova, emette un suono purissimo, tale da rincuorare la povera gente che si è raccolta per ascoltarlo.

L’ostinazione di quei russi nel partecipare al funerale di chi, per il regime, sostanzialmente non è mai stato vivo e rilevante, ricorda in qualche modo il suono della campana di “Andrej Rublev”: spuntato dal nulla nelle condizioni più improbabili, e arrivato a percorrere tutta la lunga, lunghissima strada fino al cuore. Nel quale, questo è certo, rimarrà a lungo.

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