Ma quello che autori e copioni non inventano nell’arte del cinematografo, nel calcio puntualmente avviene e così le due proprietà sportive della famiglia De Laurentiis si ritrovano a governare i campionati, con una certa sorpresa degli astanti, anche perché, la dico tutta, non è che i due si facciano amare all’impazzata, anzi, come sostiene un amico mio, se te li dovessi trovare come vicini di ombrellone, ripiegheresti il telo da spiaggia, raduneresti gli oggetti personali e punteresti verso la più vicina località di montagna.
Aurelio è così se ci pare, sa trasformare ogni parola in una sberla, con quella voce raschiata e gli occhiali da sole anche in notte piena. A Los Angeles il suo cognome ha fatto epoca, lo zio fu produttore grandioso, il cognome è pesante e il sogno di un premio Oscar, toccato al parente, sembra una mission impossible.
Però c’è il football e Aurelio ha idee rivoluzionarie, manderebbe ai carboni l’Uefa, la Fifa, la Figc e la Lega, vorrebbe una sua Hollywood dove esibire i migliori, roba tipo la Superleague però aperta anche al Napoli.
Ora ha una squadra che in Europa ha fatto cose che noi umani non potevamo immaginare, tredici gol in tre partite e mica con Far Oer o San Marino, ma inglesi, scozzesi e olandesi, e il bello deve ancora arrivare.
Il problema sarà gestire, a Bari e a Napoli, l’eccitazione del popolo tifoso, quello stesso che, erano i mesi di agosto e metà settembre, chiedevano la testa di entrambi, padre e figlio. Sui lungomare Caracciolo e Araldo di Crollalanza sbraitavano, erano pronte le ghigliottine: oggi vendono le statuine di don Aurelio e di Luigino.