IL RINASCIMENTO ITALIANO RIPARTE DAI CONCORSI TRUCCATI IN UNIVERSITA’

Che bella cosa l’università italiana, così bella e così vicina al Paese da sentirla nostra, cosa nostra insomma. Suona forse insolente l’allusione alla malavita, ma i fatti raccontano che l’accostamento non è fuori luogo. L’università come luogo di potere, dove rettori e decani fanno il bello e cattivo tempo infischiandosene di concorsi, meriti e diritti acquisiti.

191 indagati, da cima a fondo dello stivale, anche a seguito di intercettazioni che non fanno rabbrividire, perché qualche schifezza siamo abituati a sorbircela, ma un po’ di nausea la danno comunque. Tutti i luoghi comuni mafiosi ai quali siamo abituati, concentrati però nei luoghi che dovrebbero essere i bastioni della civiltà e del sapere.

Poi hai voglia di spingere i giovani a rimanere, a provare la strada della ricerca in Italia, con che coraggio gli vai a dire che è e deve essere qui il loro futuro?

“Siamo tutti parenti (…) I nostri concorsi sono truccati”. Più espliciti di così. Lo chiamano il sistema dei baroni, ma questa aristocrazia che si è autoincoronata e che decide a proprio piacimento i destini altrui, non è altro che un’ennesima disgustosa pagina di un millenario sistema clientelare che questo Paese conosce bene: cortesie, favoritismi, preferenze, convenienze, in barba ai concorsi, ai meriti, ai risultati.

“Ci scegliamo i vincitori, poi scriviamo i bandi”. Nessuna vergogna, nessun pudore, una rete di attempati goliardi che però fanno maledettamente sul serio e si considerano davvero i migliori, gli eccellenti, gli aristocratici, che fanno comunella, si sentono al telefono – nemmeno furbi tra l’altro -, sbeffeggiano e deridono, investono e mandano al macero.

Tutto normale dal loro punto di vista, perché loro sono l’élite: “Siamo tutti imparentati. Del resto l’ateneo è una specie di élite della città”.

Chi prova a superare un concorso, chi lo vince, chi a pieno diritto si guadagna un posto, cosa dovrebbe dire, fare, pensare? Torna inevitabilmente alla mente il pensiero di Corrado Alvaro, un giovane meritevole che vede i propri meriti e i propri diritti acquisiti calpestati da una cosca di boss travestita da docenti, cosa può pensare se non all’inutilità di vivere in modo onesto?

“Stavolta tocca a me e la prossima volta tocca a lui”, lo stile è quello degli intoccabili, le regole, i bandi, i concorsi modellati a proprio uso e consumo, e nel caso qualche indesiderato si mettesse in mezzo, ecco pronta la ricetta: “Facciamo un po’ di mobbing nei confronti dei candidati”.

Nessuna differenza rispetto a quello che siamo abituati a sentire da sempre nelle cronache che riguardano gli appalti, meglio ancora se pubblici. Anche qui, come ovunque, si tratta di cosa nostra e nessuno si deve mettere in mezzo.

Per quanto amara e avvilente, la verità è che non esistono zone franche in questo Paese, non esistono zone nobili nelle quali muoversi a testa alta senza preoccuparsi di imboscate. Le insidie possono nascondersi dietro ogni angolo, dietro ogni scrivania, dietro ogni titolo, a maggior ragione se nobiliare.

Non è una guerra civile, ma certamente una guerra di civiltà. Gli esempi che dovrebbero servire da modello per i giovani, sono spesso modelli da evitare e il monito è l’inverso di quel che dovrebbe essere, non diventate come loro.

Qualcuno cercherà di convincerci che si tratta di casi isolati, che in realtà l’università italiana si muove e agisce in modo serio, equo e rispettoso. Non sarà semplice credergli, dopo quest’ultima rastrellata di casi: ben 191 e per nulla isolati, anzi, ben connessi tra loro.

Che almeno sia la volta buona e se ne vadano per sempre, gli aristocratici.

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