IL PEGGIO DEL PEGGIO SOTTO IL PONTE MORANDI DI CATANZARO

Uno due tre, tutti giù per terra. Un gioco, nulla più, il clamore ormai è solo un sibilo, solo alla fine un boato, quattro calcinacci che cadono a valle, che sarà mai. E poi qualche vita, giusto, come nei video giochi, quante vite hai ancora?

Ne ho un sacco di vite, le vite di tutti quelli che transitano sul ponte, anche loro sibilano ogni tanto, anche loro cadono a valle ogni tanto, effetti collaterali, anche il vaccino in fondo può averne.

“Con questo materiale l’abbiamo fatto… e casca tutto”, così una delle intercettazioni di uno degli indagati a seguito del sequestro del ponte Morandi a Catanzaro. Se possibile, persino peggio dello squallore emerso per il Morandi genovese, perchè a Catanzaro questi farabutti barano sulle manutenzioni, di oggi, partite proprio dal disastro ligure, siamo al peggio del peggio. Qualcuno sogghigna al telefono, pare non avere cognizione del potenziale, e il potenziale sarebbe un omicidio.

È curioso, in realtà macabro, pensare che un omicidio non sia considerato tale da chi lo commette, solo per il fatto che non sia chiaro quando avrà luogo e solo per il fatto che non sai chi saranno le vittime. Solo.

Ancora più curioso il fatto che il clamore non sia assordante come dovrebbe, perché in qualche modo ci siamo abituati: professionisti impastati con la malavita, la ’ndrangheta, la quel che sia, ci siamo ormai rassegnati che il furbo per quattro soldi arrivi a uccidere, pur senza sporcarsi le mani.

E il fatto di uccidere non sai chi, non sai quando, non sai se, sembra quasi sia percepito come un’attenuante, dagli attori come dal pubblico, quasi rassegnato, così va il mondo.

Al punto che non solo le opere, ma anche e soprattutto la manutenzione delle opere è scena del crimine più atroce, per quattro palanche “devo mettere quella porcheria” e il problema non è che qualcuno muoia, il problema è che ci becchino.

Siamo assuefatti al peggio, questa è la verità. E la verità è che una volta realizzate le opere, quando si realizzano, a nessuno viene in mente di averne cura, quella cura che è l’essenza del vivere con gli altri. Se interessa, sia chiaro, perché si può anche decidere di vivere a duemila metri in una baita con quattro, otto, dodici, sedici capre. Ma in caso contrario, aver cura del bene comune dovrebbe essere la priorità assoluta.

Niente di nuovo sotto il sole, solo l’ingenuità di chi scrive. Si pensi al terremoto, a L’Aquila e alle intercettazioni di chi godeva per il “colpo di culo”, chi presagiva un lauto tornaconto economico per gli appalti della ricostruzione.

Il male è incommensurabile, un male esponenziale, ma allo stesso tempo temperato dalla maschera che indossano i pusillanimi e i codardi, la maschera priva di fori per gli occhi, che impedisce agli altri di riconoscerti, ma anche a te di vedere i corpi dilaniati e maciullati che la tua malvagità ha causato.

È una cultura che tutti conosciamo e pratichiamo, in realtà, ogni giorno. Che sia un rifiuto smaltito in modo improprio, che sia un impercettibile furto, una sopraffazione lontano da occhi indiscreti, un potenziale anonimo omicidio, è la stessa cultura.

Ma ci sono diversi gradi di cultura, anche all’incontrario, e il crimine gratuito, lo sparo a occhi chiusi nell’illusione che non colpisca nessuno, o che renda più innocenti perché indirizzato verso ignoti, è ancora più ignobile e imperdonabile. Vile.

Un po’come disseminare un campo di mine, di ordigni letali, e poi andarsene, poi un tuffo in piscina.

Che colpa ne ho io se poi qualcuno ci cammina sopra?

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