E, subito, politicanti e dirigenti regionali, espertoni ed espertini, attaccano il pippone sugli stipendi vergognosamente bassi, sull’inesistenza sociale, sui millanta laccioli che rendono perlomeno sgradevole la vita di un professore. Come se gli stipendi miserevoli li avesse stabiliti il destino cinico e baro e non lo Stato, ovverosia loro: in Italia è sempre colpa di qualcun altro. Non a caso, ogni volta che viene nominato un nuovo ministro della Pubblica Istruzione, non appena insediatosi, si dice stupefatto dei bassissimi stipendi ed indignato per il gap che li separa da quelli degli altri paesi europei. Poi, naturalmente, si guarda bene dal proporre di ritoccarli: basta il siparietto iniziale. Così, i ministri cambiano, ma gli emolumenti rimangono sempre quelli: da fame. Lo stesso fanno queste simpaticissime analisi, che sembrano sussistere solo per giustificare lo stipendio degli analisti e per fornire un assist ai disutili di cui sopra.
E, quindi, a nome della categoria, vi chiedo ufficialmente di farla finita: piantatela di portare a spasso i docenti lombardi, come se fossero dei poveri rimbambiti. Lo sappiamo anche da soli che non contiamo un tubo sul piano sociale e le buste paga le vediamo tutti i mesi: non abbiamo bisogno che venga qualcun altro a spiegarci che insegnare è un mestiere frustrante, per chi abbia studiato tutta la vita e, magari, sia uscito dall’università con voti eccellenti e guadagni meno di una badante ucraina. Lasciateci cuocere nel nostro brodo: mugugnare per nostro conto e maledire da soli il giorno in cui abbiamo deciso di fare questo mestiere.
Facciamo un esempio concreto: il mio. Io sono uscito da uno dei migliori licei classici d’Italia, mi sono laureato in un’ottima università col massimo dei voti, ho vinto un concorso ordinario portando a casa un rotondo 40/40, in quarant’anni di cattedra, avrò fatto cinque giorni di malattia, mai un ritardo, mai uno sgarro: insomma, non ho mai perso un colpo. Guadagno poco più di 2.000 euro al mese: quando ho iniziato, fatte le debite proporzioni, ne percepivo 1.800. Il mio potere d’acquisto è andato precipitando, mentre il mio disappunto è aumentato in proporzione. E venite a parlarmi di burnout? Ma io vi corro dietro col forcone: altro che burnout!
Non è di chiacchiere vane o di indagini demoscopiche che hanno bisogno i professori: per vincere la depressione, basterebbe mettere mano a pochi, essenziali, accorgimenti. Tanto per cominciare, eliminare la perniciosissima idea secondo cui gli insegnanti siano tutti uguali: a scuola trovi Stakanov e il fannullone, il genio e il deficiente. Cominciamo ad esaminare i docenti e a dividere il grano dal loglio: il grano guadagni il doppio e il loglio la metà. Eh, direte voi: ma come si fa? Si fa, si fa: basta un esamino facile facile all’anno. Se volete, vi faccio un disegnino. E, poi, liberarci dalla pletora di incombenze burocratiche, dalle digitalizzazioni che incasinano anziché semplificare, dal PCTO, dai recuperi, dai PdP.
Ecco, cominciate da lì e già vedreste il burnout scemare sensibilmente. Ma non lo farete mai, perché a voi la scuola va benissimo così com’è. E’ del tutto funzionale all’idea di Paese che avete in mente: un Paese in cui uno come Amadeus guadagna come mille insegnanti. E, allora, piantatela di tormentarci con le vostre belle scoperte: lasciateci così. Poveri, depressi, ma, perlomeno, immuni da dolorose illusioni. Amen.