I COLORI IN UN’ ITALIA DI DALTONICI

di MARIO SCHIANI – Incomincia il lunedì come un borbottio. Il martedì è già qualcosa in più, un rumore di fondo che non di rado distrae: ci si sorprende ad allungare le orecchie, a interrogare il prossimo sulla possibile fonte di quel fastidio. Il mercoledì è un rumore vero e proprio: occorre alzar la voce per imporvisi e farsi capire. Il giovedì, ti saluto: è un baccano, come quello prodotto dai cantieri in strada, che occorre superare a passo svelto per guadagnare un marciapiede più tranquillo. E il venerdì? Il venerdì è cacofonia, frastuono, orchestra all’Lsd, gessetto sulla lavagna, “L’eredità” a tutto volume: insopportabile.

Ogni settimana, così: un crescendo di chiacchiere, commenti, posizioni a piè fermo, ammonimenti, polemiche e proclami in vista delle possibili variazioni di “colore” che il venerdì potrebbero essere imposte alle Regioni. Se a Roma tira aria di “arancione”, per non dire di “rosso”, la periferia si agita. Le categorie si mobilitano, i sindacati protestano, i governatori si muovono come burattini menando tremende mazzate a ministri, oppositori, membri di comitati scientifici e boiardi di Palazzo.

La ragione è evidente: lo slittamento di colore comporta serie conseguenze, prima di tutto economiche. Chiudono i negozi, chiudono i ristoranti, gli spostamenti ammessi diventano a corto e cortissimo raggio. Dunque, non è difficile comprendere le motivazioni di tanto vigore polemico: arduo è riconoscerne ancora, dopo lunghi mesi di emergenza, l’efficacia e l’opportunità.

Credo sia legittimo dire che tutti noi, fatta eccezione per i negazionisti più ostinati (ormai prossimi ai terrapiattisti in fatto di attaccamento all’assurdo), abbiamo compreso come il contenimento del contagio da Covid passi anche attraverso il distanziamento sociale e che questo debba a volte essere perseguito al prezzo, alto e doloroso, di rallentare o fermare certe attività. Il sistema adottato dal governo (dai governi, dobbiamo precisare oggi) è quello dei colori: per quanto discutibile e imperfetto, è basato su un automatismo ormai chiaro. Proprio per questo l’esercizio di metterlo in discussione, di contestarne l’imparziale applicazione, che ogni settimana si ripete puntuale al minimo rischio di inasprimento locale delle disposizioni, sta diventando stucchevole. I governatori si sentono in dovere di sottolineare la buona condotta dei “loro” cittadini (“Non ce lo meritiamo l’arancione!”), di sottolineare i dati positivi e di minimizzare quelli negativi, di difendere – atteggiamento sacrosanto – le categorie produttive tralasciando – posizione meno saggia – la più ampia questione sanitaria.

L’ostinazione un po’ vuota con cui il rituale si rinnova fa pensare che la politica, sempre in cerca di un’occasione per giustificare se stessa in modo indolore, ovvero rimanendo esente da impegni verificabili e da responsabilità precise, strilli e si agiti nel tentativo di dimostrare di non essere impotente: l’effetto ottenuto, ogni giorno di più, è esattamente il contrario.

Se il sistema dei tre colori è inefficace o perfino ingiusto, allora va contestato alla radice, magari avanzando proposte nuove. Chiusure più dure ma localizzate? Tracciamenti più efficaci? Impetuosi avanzamenti nella campagna vaccinale? Le strade aperte non sembrano poche, basta sceglierne una e prepararsi alle responsabilità che ogni pronunciamento concreto inevitabilmente comporta. Altrimenti si finisce come quel personaggio di una ormai lontana, ma sempre attualissima, vignetta di Altan. Con un sorrisetto furbo e compiaciuto, confidava ai lettori: “La gente mi riconosce per strada e grida: a’ coso, facce ‘na polemica!”

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