HA VINTO IL GIORNALISMO NEUTRO E ASETTICO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Pensavo fosse amore, meditava Massimo Troisi, invece era un calesse. Pensavamo fosse fantascienza, constatiamo noi, invece era realtà. Anzi: è realtà, al presente, presentissimo. Tanto reale e presente quanto la lettera di licenziamento toccata a tre giornalisti e a una poligrafica della redazione italiana di “Upday”, app e sito di informazione internazionale che fa capo all’editore tedesco Alex Springer, quello di “Bild” e “Die Welt”, un colosso dell’editoria digitale e non solo.

Il lavoro dei quattro – questa l’indicazione che viene dall’editore – sarà interamente affidato all’intelligenza artificiale. Ed eccoci all’equivoco tra fantascienza e realtà al quale accennavamo: scenari che ancora pensavamo orwelliani sono in realtà parte integrante delle politiche aziendali di un grande imprenditore europeo. Cade l’ultimo velo di Maya: la situazione del lavoro intellettuale non è diversa da quella del lavoro manuale: in entrambi i casi l’uomo può essere sostituito dalla macchina.

Ricorderete: dapprima venne l’espulsione degli operai dalla catena di montaggio, sostituiti da infallibili robot che non chiedevano mai il permesso di andare in bagno. La cosa ci sembrò inquietante, ma presto intervenne la convinzione che, anzi, era per il meglio: dopo tutto, quanto doveva essere alienante starsene otto ore in linea ad avvitare sempre gli stessi bulloni? Ricordate il povero Charlie Chaplin in “Tempi moderni”? Era certo un progresso aver liberato lui e gli altri operai da quel logorante giogo. Facile dirlo, e teorizzarlo, quando i robot al massimo potevano montare il motore di una Panda: adesso che possono comporre il manuale delle istruzioni e scrivere il comunicato stampa per il lancio dell’automobile, la faccenda, per chi lavora a una scrivania, assume un aspetto diverso.

Di fronte a questa realtà, il giornalista vecchio stampo – fatto di carne, ossa ed emorroidi – tende a rifugiarsi in una trincea tenuta in piedi in parte dalla ragione e in parte dal sentimento. Come può una macchina, argomenta, sostituirsi alla mia sensibilità e alla mia cultura? Come può avvalersi della mia esperienza e delle mie conoscenze? E l’empatia? Dove la mettiamo l’empatia? Scrivere notizie significa scrivere di persone, esseri umani, individui, significa – o dovrebbe significare – guardare negli occhi il prossimo: come fa l’intelligenza artificiale a guardare in faccia qualcuno se una faccia, lei, neppure ce l’ha?

Tutto vero – o quasi -, ma questa linea di difesa trascura di considerare gli oggettivi vantaggi che l’intelligenza artificiale offre in questo campo. Vantaggi che possono non piacerci e che addirittura possiamo trovare odiosi, eppure sono reali, consistenti, e traggono forza proprio dal modo in cui il mondo dell’informazione è oggi impostato. In un sistema basato sempre più sul riferimento indiretto – la citazione della citazione, ovvero il “copia e incolla” globale – l’intelligenza artificiale non può che svolgere il suo compito meglio e più in fretta (la velocità è sempre più un fattore decisivo) del redattore a propulsione umana.

Dunque si vede perché, anche al netto del guadagno sui costi, un editore come Alex Springer investa su questa tecnologia. Se il mondo è un “database” già scritto, l’uomo in quanto tale è spacciato: raccogliere informazioni, aggregarle, e presentarle in una cornice digitale è lavoro tagliato su misura per l’intelligenza artificiale. Certo, un imprenditore accorto mai si affiderebbe al cento per cento a una macchina: così come un pilota d’aereo ha sempre la possibilità di escludere il pilota automatico, allo stesso modo un direttore di giornale o un manager editoriale disporranno sempre di un sistema che permetta loro di intervenire, mediare, correggere, indirizzare. Ma gli automatismi – e l’esperienza di tutti i settori lo insegna – una volta inseriti creano dipendenza e annacquano il senso di responsabilità. Chi se la sente di sostituirsi a una macchina programmata per un certo compito con il rischio, se le cose vanno male, di non poterle dare la colpa dell’accaduto?

Stanley Kubrick, con il suo film “2001: odissea nello spazio”, nel mettere in scena la paranoica ribellione del computer HAL suggerisce un’intrinseca malignità dell’intelligenza artificiale, una sua insopprimibile volontà di potere. Da questa minaccia l’uomo si salva, se si salva, solo imponendosi un salto di qualità quasi magico, rappresentato dal “bambino delle stelle”, il feto cosmico che riempie l’ultima inquadratura: una speranza giunta a riscattare l’umanità, intrappolata dalla sua stessa corsa alla tecnica, attraverso nuove qualità in sintonia, così pare volesse dirci Kubrick, più con il cuore che con il cervello.

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