FUGA DALLA GIUSTIZIA

Non si tratta, per una volta, di parteggiare per qualcuno contro qualcun altro. Né di sposare una tesi per usarla come un ariete contro chi la pensa diversamente. Soprattutto, non è il caso di ipotizzare, neppure per un momento, un partito delle armi contro un partito delle non-armi. La questione, qui, vorrebbe essere un’altra: come vogliamo pensare, nell’immediato e nel prossimo futuro, la Giustizia nel nostro Paese?

In altre parole, vogliamo continuare a sentici distanti da essa, poco protetti, confusi da procedure complesse che portano a decisioni spesso respinte con indignazione – e approssimazione – dall’opinione pubblica? Vogliamo insomma trattare la questione della Giustizia come facciamo con ogni altra, ovvero quale contesa per baruffe da osteria, recriminazioni sul gol in fuorigioco, intemerate da agitatori di strada?

Perché questo succede: di fronte a una sentenza apparentemente troppo mite l’uomo comune si trasforma in giustiziere e, a dispetto della sua scarsa o nulla conoscenza del Codice di procedura penale, emette verdetti feroci, inappellabili, tesi ad appagare una fame di giustizia dovuta proprio a movimenti gastrointestinali più che a forme razionali di civiltà. Dall’altra parte gioca invece un garantismo ideologico un po’ imbambolato, che riesce a essere nello stesso tempo fuori dal mondo e furbesco, stranito e utile soltanto alla polemica.

Per farsi un’idea della giustizia che vogliamo (o che vorremmo) sarebbe meglio allora leggere l’intervista rilasciata in questi giorni al “Corriere” da Massimo Zen (nella foto), ex guardia giurata di Cittadella. Nel 2017, intervenuto in seguito all’allarme per il furto a un bancomat in provincia di Treviso, sparò tre colpi di pistola contro l’auto dei ladri, uccidendone uno. L’uomo ha sempre sostenuto di aver sparato perché in pericolo di vita: l’auto dei ladri avrebbe tentato di investirlo. La Corte di cassazione ha invece confermato la condanna a 9 anni e 6 mesi per omicidio volontario, nonostante il parere diverso della Procura generale, incline a rimandare il caso alla Corte d’Appello.

La prospettiva della prigione ha ovviamente incupito Zen che, nell’intervista, dopo aver ribadito la sua versione dei fatti, afferma come “considerando le leggi che ci sono in Italia” oggi invece di sparare, e di affrontare i ladri, “si girerebbe dall’altra parte”.

Zen, avviandosi alla cella, denuncia il paradosso, dal suo punto di vista evidente, della punizione che tocca a chi cerca di fermare i malviventi invece che ai malviventi stessi. Ed estende la sua amarezza ben oltre le competenze dei giudici, dichiarando la sua delusione per il datore di lavoro – che, dice lui, lo ha “scaricato” – e la politica, i cui leader, dopo avergli manifestato solidarietà, ora tacciono e, come ha ipotizzato di fare Zen stesso, guardano dall’altra parte.

Siccome né io né voi siamo giudici o testimoni, sull’accaduto possiamo anche risparmiarci qualunque commento, limitandoci a un riserbo che, se non altro, ha il pregio di non alimentare la cloaca del qualunquismo. Potremmo invece azzardare una riflessione su come si tratta oggi la Giustizia nel dibattito pubblico, con particolare riferimento a quei leader politici che esprimono solidarietà quando “sentono” che tale sentimento possa fare al caso loro e scompaiono quando le controversie più delicate imposte dalla realtà sociale esigono risposte ragionate, frutto di competenza, dialogo, cultura e studio.

Potremmo anche discutere sul fatto che l’eterno istante emotivo in cui viviamo pretende risposte, appunto, istantanee, ancorché poco o punto ragionate. Il datore di lavoro farà dunque bene a tutelarsi all’istante “scaricando” il dipendente, così come di fronte a ogni violazione del politicamente corretto tutte le istituzioni – dalla Corte Suprema americana al Circolo di Topolino – rispondono “prendendo le distanze” e sollecitando dimissioni; la politica, dal canto suo, ancora non si è spenta l’eco dello sparo che già twitta, sentenzia e detta a Facebook e Instagram improrogabili revisioni del Codice penale.

Il giorno dopo, al massimo due giorni dopo, cala però quel silenzio che nessuno sa più ascoltare, nel quale si perde ogni speranza di progettare un futuro decente nell’interesse di tutti.

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