Festa della donna, festa dell’uomo, a quando la festa dell’essere umano?

di FABIO GATTI

Si è celebrata praticamente in totale silenzio la giornata internazionale dell’uomo, festeggiata per la prima volta il 19 novembre del 1999 nel piccolo Stato caraibico di Trinidad e Tobago (la ricorrenza, per la verità, aveva già fatto la sua comparsa nel 1992, ma il 7 febbraio). Sarà che la giornata non è riconosciuta ufficialmente dall’ONU, sarà che ormai non c’è giorno del calendario che non sia votato a una ricorrenza, a un anniversario, a un evento da festeggiare o da ricordare, sarà che appare forse anacronistica una festa di genere nell’epoca in cui si discute della legittimità stessa del concetto di ‘genere’, proponendone da molte parti il superamento in nome del diritto alla libera autodeterminazione dell’identità personale: resta il fatto che la giornata dedicata all’uomo inteso come essere di genere maschile non riscuote la visibilità della speculare festa della donna.

I motivi della disparità non sono difficili da intuire, in un mondo ancora fortemente segnato – soprattutto in certe aree geografiche e in certi contesti religiosi – da siderali disparità tra la condizione dell’uomo e quella della donna. L’evento al maschile fu però pensato dal professore americano Thomas Oaster, nel 1991, proprio per convogliare l’attenzione dell’opinione pubblica su quegli aspetti, pochissimo noti o taciuti, nei quali le differenze di genere tra uomo e donna si risolvono, forse insospettabilmente, a svantaggio del primo: dall’aspettativa di vita media più breve al più alto tasso di abbandono scolastico sino alla più fragile condizione dei maschi in situazioni di divorzio e di separazione, quando l’assegnazione dei figli vede quasi sempre prevalere la figura materna, pur gravando sul padre gran parte dell’onere economico, con le conseguenze spesso drammatiche documentate dalle cronache degli ultimi anni (padri costretti a elemosinare ospitalità da conoscenti o in dormitori per l’impossibilità di far fronte alle spese a cui pure sono legalmente tenuti).

Ai dati statistici si possono aggiungere anche alcune correlate tendenze ormai sempre più diffuse, prima fra tutte il progressivo sgretolarsi del ruolo educativo della figura maschile, considerata, nell’imperante logica materialista, la figura che deve provvedere al benessere materiale ed economico di un gruppo familiare e di una comunità, ma non necessariamente anche al loro benessere spirituale e morale: prova ne è, oltre alla più volte denunciata perdita di autorità e/o autorevolezza della figura paterna nel percorso educativo dei figli, l’ormai pluridecennale decremento degli uomini nelle professioni formative (i maestri elementari maschi sono quasi scomparsi, e anche nei livelli più alti dell’istruzione si assiste a una netta prevalenza delle donne). La giornata ha senz’altro il merito – o meglio: lo avrebbe avuto se fosse stata richiamata all’attenzione da un sistema informativo distratto – di far riflettere su quanto la realtà sia più complessa delle semplificazioni a cui viene troppo spesso inchiodata, gettando una luce su quegli aspetti mai considerati perché non allineati alle parole d’ordine di una società. Ogni anniversario dovrebbe servire ad andare in profondità, mentre in genere resta purtroppo l’occasione per replicare stancamente le banali ovvietà che assicurano l’applauso al pubblico concione di qualche autorità, ma non servono a sfondare la superficialità delle cose. Ma proprio per sfuggire a questo rischio sarebbe forse l’ora di aggiungere, alle feste dedicate separatamente alle due metà del genere umano, un’unica ricorrenza dedicata all’Uomo nella sua complessità, inteso come essere umano indipendentemente dal sesso. Sarebbe questa un’utile occasione per riflettere su quanto la centralità della persona e della società umana nel mondo sia messa drammaticamente in discussione, e anzi in crisi, dalle storture della nostra epoca: sarebbe l’occasione per ribadire il primato dell’intelligenza naturale sull’intelligenza artificiale, la superiorità dell’uomo sulle macchine; sarebbe l’occasione per richiamare l’attenzione su vecchie e nuove forme di schiavitù morale e fisica, sulla ‘reificazione’ cui l’essere umano è condannato nei campi di lavoro dal caporalato o meno violentemente davanti agli schermi di una tecnologia sempre più invasiva e stordente; sarebbe l’occasione per ridiscutere gli estremismi di un animalismo chiassoso e macchiettistico, che vorrebbe parificare a diritti, esigenze e problemi prettamente umani quelli degli animali. Sarebbe insomma l’occasione per rifarsi all’intramontabile lezione del più alto umanesimo, proprio quello che ha avuto in Italia la sua culla, capace di individuare con mirabile sottigliezza di pensiero l’unicità della condizione umana, richiamando magari le dimenticate parole che Giovanni Pico della Mirandola, nel suo Discorso sulla dignità dell’uomo (1486), immagina che Dio rivolga all’essere umano appena creato: «La natura limitata degli altri [animali] è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». In questo non c’è davvero differenza tra uomo e donna: nell’inalienabile diritto alla propria libertà; nell’inaccettabile sopruso che si consuma quando – ancora troppo spesso anche nel Terzo millennio – quell’anelito viene soffocato.

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