EPPURE C’E’ ANCHE UN ARTIGIANATO DELLA FELICITA’

Premetto che mi dichiaro completamente d’accordo al cinquanta per cento con quanto detto dal nostro Mario Schiani sull’argomento felicità. Il suo piglio arguto, colto e ben argomentato affonda nella facile suggestione che parlare di felicità in modo palese da un pulpito suscita certamente un’ondata di scetticismo e di convincenti controargomentazioni. Esempi di non-applicabilità di certi concetti astratti ce ne sono a bizzeffe, la demolizione è un esercizio dialettico qualche volta troppo facile.

Proverò a partire da un altro punto di vista. La felicità è qualcosa che è già così difficile da descrivere, figuriamoci cercare di materializzarla e addomesticarla in corsi universitari o summit internazionali a qualsiasi livello. La immaginiamo, la desideriamo, la inseguiamo tutta la vita e magari non ci accorgiamo nemmeno di averne assaporato un frammento in questa ricerca affannosa. Non possiamo negare però che ognuno di noi ci provi, magari non lo diciamo, ma è nell’essenza umana tentarci. Non dobbiamo né vergognarci né tantomeno buttarla in farsa. La mia tesi è che possiamo e dobbiamo allenarci per poterla afferrare.

Una prima dimostrazione è data da ricerche scientifiche – così replico anch’io con delle evidenze a Schiani -: la psicologa docente e ricercatrice Sonja Lyubomirsky dell’università di Harvard sostiene con i suoi studi-ricerche che la propensione alla felicità viene dalla genetica per il 50% (tradotto: non ci puoi far niente), dal tuo stato mentale interiore per il 40% e dal contesto per il rimanente 10% (tradotto per gli ultimi due punti: ci puoi lavorare). Dà una precisa indicazione che grosso modo la metà dell’utopia tanto ambita è nelle tue mani. In altre parole: SI-PUO’-FARE, per dirla con altre celebri citazioni. Ma informazioni di questo tipo non convincono certo i più cinici.

La seconda dimostrazione, molto più concreta, viene da esperienze dirette fatte nelle organizzazioni aziendali. Ho provato a modificare sia le condizioni di lavoro che gli approcci individuali e collettivi per verificare se questi due ambiti potessero davvero predisporre la gente a essere felice. Non sono partito affatto da conoscenze scientifiche, ho provato semplicemente a creare un ambiente in cui le persone si parlano e si ascoltano con rispetto, dove prevale di più il ragionamento che le disposizioni, cercando di usare sempre la propria testa anche in presenza di affermazioni categoriche, essere solidali e favorire i valori di ogni singolo individuo, dare l’esempio, coinvolgimento continuo e comunicazione trasparente. Un lavoro fatto dal basso, all’inizio anche intuitivamente, ma consistente nel tempo e costellato di fatti concreti realmente successi. Ci vuole pazienza, nessuna fretta, pochi proclami. Solo grazie a un lungo percorso del genere si può arrivare a consolidare una piacevole e diffusa convinzione di sentirsi parte attiva di un’Azienda Umana. Su questa solida base si può imboccare con coraggio la nuova strada verso una forma di felicità professionale e personale, supportata allora sì da esperti e da metodologie innovative: progetto iniziato con entusiasmo, lavori in corso.

E’ un esempio isolato? Può essere, i soliti diffidenti storceranno il naso e diranno che è l’eccezione che conferma la regola, li invito a smettere di annichilirsi, di guardarsi in giro e mettersi invece in gioco, la felicità aspetta anche loro là fuori.

Un pensiero su “EPPURE C’E’ ANCHE UN ARTIGIANATO DELLA FELICITA’

  1. Cristina Dongiovanni dice:

    Non conosco il metodo né i passi concreti che lei sta compiendo verso la “felicità” aziendale, non so se il progetto parte da un approccio umano piuttosto che estetico, non so se si basa su un dialogo oppure è calato dall’alto. Ma certamente un pensiero che guarda al benessere individuale e sociale dei dipendenti all’interno del contesto lavorativo é prezioso. Dal basso dei miei 35 anni di lavoro in una multinazionale ritengo che sia fondamentale salvaguardare e sviluppare il più possibile un concetto di cui si parla tanto e forse troppo ma si esplicita ancora poco, l’inclusione. Spendere quasi tutta la propria giornata in ufficio significa delegare all’ambito professionale una fetta importantissima di “felicità” e sentirsi inclusi (cioè accettati, partecipati, rispettati, benvoluti) costruisce un benessere psicofisico ed una realizzazione personale che rendono il lavoratore un essere umano più completo, sicuro, sereno. E l’azienda una comunità produttiva con un’energia motivazionale moltiplicata.

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