QUANT’E’ INFELICE LAUREARSI IN FELICITA’

Karen Guggenheim, che di recente ha portato a Como il suo World Happiness Summit, giura di aver trovato la felicità praticando “gentilezza, perdono e gratitudine”. Non c’è ragione di dubitare che questa formula, per lei, abbia funzionato ottimamente. Vien da chiedersi, però, se è applicabile su una larga scala di elementi umani: riuscirebbero, oggi, Zelensky e i suoi compatrioti ucraini a praticare gentilezza, perdono e gratitudine in misura sufficiente da impedire alle truppe putiniane di turbare il loro benessere psichico?

Eppure Ennio Flaiano diceva che “quando l’uomo non ha più fame, freddo e paura, è scontento”. Insomma, parrebbe che non ci sia via d’uscita. Se abbiamo ragioni concrete per essere infelici, siamo infelici. Se non ne abbiamo, lo siamo lo stesso.

A questo punto sorge il sospetto che la felicità non sia cosa per noi: abbiamo inventato il concetto, traducendolo in una parola affidata al vocabolario, basandoci su brevi attimi di tregua dal malessere esistenziale, catturando nell’aria il profumo di un fiore, promessa vaghissima e probabilmente menzognera di un qualcosa in più che adesso ci ostiniamo a voler conquistare in pianta stabile.

E come fa l’uomo “scontento”, quello descritto da Flaiano come al sicuro da “fame, freddo e paura” e da noi aggiornato come “possessore di Suv, abbonato a Netflix, assiduo dello spritz e tentato da una seduta con l’armocromista di Elly Schlein” a ottenere stabilmente per sé questo preziosissimo gadget? Ovvio: lo cerca su Amazon. Se le ricerca dovesse fallire, non per questo rimarrà a mani vuote: a domanda, per quanto assurda, oggi corrisponde sempre e comunque un’offerta. Il denaro non compra la felicità, come stancamente ripete un vecchio detto, ma di sicuro permette di pagare, anche in comode rate, un corso. E i corsi di felicità non sono affatto merce rara.

Un recente articolo pubblicato nella sezione economica del “Corriere della Sera” ne elenca parecchi. Stabilito, o comunque affermato, che “la felicità è una scienza”, così dice l’articolista, non resta che diventare scienziati. Si può farlo iscrivendosi per esempio al corso “Psychology and the Good Life” dell’Università di Yale: a oggi il più popolare di tutto l’ateneo, tanto che ne viene proposta anche una versione online. Da parte sua Cassie Holmes, docente alla Anderson School of Management dell’Università della California, dice che è tutta questione di “time poverty”, quella comune sensazione di non aver mai abbastanza tempo.

La soluzione, dunque, sarebbe quella di valorizzare il proprio tempo al massimo, a cominciare da quello dedicato al lavoro. Bisogna dunque trovare un lavoro che ci renda felici da accostare a un hobby che ci renda felici per poi chiudere la giornata accanto a persone che ci rendano felici. In altre parole, Cassie suggerisce che per essere felici è assolutamente indispensabile essere felici. A Roma, mi dicono, hanno coniato un’espressione adattissima a commentare trovate del genere, peccato non poterla riportare qui.

Ci sarebbero, secondo l’articolo di cui sopra, altre strade “scientifiche”, terapeutiche e perfino filosofiche per raggiungere la felicità. In tutto ciò il fatto nuovo sarebbe che non cerchiamo più la felicità attraverso un elemento mediatore – come un tempo sarebbe stato lo yoga, la mindfulness, la dieta, l’esercizio fisico e la dinamite per far saltare il capanno abusivo del vicino -, no: andiamo direttamente alla fonte. Che però è sfuggente al punto da farci dubitare della sua esistenza. Forse è addirittura la nostra testardaggine nel cercare la felicità a far emergere il suo contrario, come sottoprodotto della frustrazione.

Ciò detto, avrei voluto evitare di chiudere con un consiglio, men che meno con una formula, ma a questo punto sembra inevitabile: forse il modo più sicuro per essere felici consiste nell’abbandonarci quietamente alla nostra natura più concreta. Fatta in parti uguali di polvere stellare e afflizione cosmica.

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