EPOPEA E ROVINA, LA PERFETTA PARABOLA ITALIANA DI GALAN

Era un potentissimo, non è più niente. Politica&Affari, come sempre. Una perfetta storia italiana, una sublime parabola di vita, buona per comprendere una lunga stagione della nostra storia. Dal Corriere.it, epopea e rovina di Giancarlo Galan, detto il Doge, a firma Marco Bonet e Andrea Pasqualetto:

La strada è sterrata, si sale, si scende, si balla. Attraversiamo un bosco sempre più fitto sui Colli Berici. Poi, in lontananza, accanto a una casa color mattone, spunta un uomo alto e corpulento. È lui: Giancarlo Galan, l’ex ministro berlusconiano e governatore del Veneto travolto dieci anni fa dallo scandalo del Mose. «Lasciatemi in pace, maledetti!», erano state le sue ultime parole ai giornalisti prima di infilare la porta del carcere di Opera dal quale sarebbe uscito dopo un paio di mesi grazie a un patteggiamento per corruzione: 2 anni e 10 mesi e 2,6 milioni di euro confiscati. Da allora un lungo silenzio, rotto solo da qualche squillo di tromba: «Un giorno parlerò».
Galan era l’uomo più potente del Nordest, scelto da Berlusconi nel 1995 per guidare il feudo orientale dell’impero azzurro. Sono stati 15 anni di governo che ne hanno fatto un Doge. Presidente delle grandi opere e delle grandi feste, del fare e della leggerezza, prima corteggiato per il potere (di cui era così consapevole da titolare la sua autobiografia «Il Nordest sono io») poi ripudiato per il malaffare scoperto dalla Procura di Venezia. Simbolo della prima scintillante stagione era la cinquecentesca villa Rodella, ai piedi dei vicini colli Euganei, dove festeggiò un matrimonio da favola chiamando come testimoni il Cavaliere e Dell’Utri.
Lo ritroviamo oggi con un rastrello in mano, solo, affaticato, malinconico. Vive in questo bosco lontano da tutto e da tutti, un po’ eremita e un po’ Cincinnato, molto distante dal «Colosso di Godi» che fu. È in vena di confessioni.

Partiamo dall’eremo. Perché vive qui?
«Era l’unico posto possibile: io non ho più nulla, non ho redditi, vivo dell’aiuto degli altri. Questa è la vecchia casa di caccia di mio nonno Girolamo che faceva l’avvocato. Ora è di mio fratello Alessandro e me l’ha data… Era preoccupato per me: l’altro nostro nonno, finito in carcere per il crac della sua banca, si suicidò. Quando mi hanno messo dentro Alessandro già vedeva la ciclicità della storia… mi ha regalato anche quella macchina».

Era fondato il timore?
«Era fondato, sì. Ci ho pensato molto spesso, anche alle modalità. In carcere ero arrivato ad affilare la latta di una scatoletta di tonno, una lama perfetta. Brutti pensieri, li ho fatti anche guardando questi alberi, cercavo il ramo che potesse reggermi… Purtroppo ho perso ogni passione: la lettura, la pesca… A trattenermi dall’irreparabile sono stati pochi amici e mia figlia Margherita». Sospira, lotta contro la commozione e cambia discorso. «Vedete, questo tavolo l’ho fatto io con alcune assi da ponteggio, quel trattore me l’ha regalato Carraro. Qui c’è tanto fare, serve la legna per scaldare la casa ma la legna pesa e io sono vecchio. In inverno non ho mai avuto più di 17 gradi qui dentro».

La famiglia?
«Mia moglie mi ha lasciato e abita con Margherita in una casa messa a disposizione da un amico. Non viviamo più insieme da un anno. Per vedere mia figlia uso la scusa di dar da mangiare agli uccelli rimasti lì nelle voliere. A mia moglie sono intestate la casa di Rovigno e quella di Lussino, io chiedo solo che mi lasci sopravvivere… comunque ora ho una mezza morosa, chiamiamola un’affettuosa amicizia, una vecchissima conoscenza di quando ero ragazzo».

Ma a 67 anni non ha una pensione? Il vitalizio da governatore?
«Per la pensione mi sono dovuto rivolgere alla Cisl, vediamo. Il vitalizio me l’hanno tolto».

Possibile che il Doge sia sul lastrico?
«Sono stato condannato dalla Corte dei Conti a pagare 5 milioni per danno d’immagine alla Regione, fino a che non saldo non posso avere carte di credito e conti correnti perché mi tolgono sistematicamente tutto. Sono costretto a vivere in nero. Avevo provato ad aprire un conto in Lituania e dopo venti giorni  l’ho dovuto chiudere. Poi in Austria e mi hanno detto che non si può fare perché sono una “persona esposta politicamente”. Per intenderci: ho dato via la mia barca da 300 mila euro al prezzo di un motore, su ebay ho venduto tutti i vini della mia favolosa cantina, se vado a pranzo con qualcuno sono costretto a farmi offrire oppure scelgo i menù a prezzo fisso… sono quasi dieci anni che non mi compro una camicia, un pantalone, questo è rammendato. Quando giro in macchina sto attento a non superare gli 80 per non consumare troppa benzina. Così sono ridotto».

L’accusa le contesta di aver incassato 900 mila euro di «stipendio» in nero all’anno dal Consorzio Venezia Nuova che gestiva il Mose. Dalle intercettazioni dei suoi commercialisti sembra che esista un tesoro. Dica la verità, l’ha nascosto in Croazia…
«Se lo trovate ve lo lascio al 95%. I commercialisti parlano di un vecchio conto corrente in cui, quando ci fu il passaggio dalla lira all’euro, chiesi di trasferire dei contanti che avevo in casa dai tempi in cui lavoravo in Publitalia. Ora non ho più neanche quelli».

Per chi ha indagato è impossibile, vista la sproporzione fra il patrimonio  accumulato e le sue entrate.
«Gli investigatori hanno preso in considerazione solo dieci anni a 5.800 euro netti al mese, ossia l’indennità base, mentre io guadagnavo molto di più. Come parlamentare portavo a casa 14 mila euro. L’ultimo reddito dichiarato quando ero a Publitalia è stato di 561 milioni di lire. Non hanno calcolato la liquidazione da 700 milioni di lire investita in azioni Antonveneta, prese a 11 euro e rivendute a 19,50, con una plusvalenza molto importante. Voglio dire che se invece di tornare indietro di 10 anni tornavano di 15 si giustificava tutto».

Perché non lavora?
«Perché sono un inavvicinabile. Solo Luigi Rossi Luciani (imprenditore ex presidente regionale di Confindustria, ndr) mi aveva fatto un’offerta che però non ho potuto sfruttare perché si basava sui rapporti con gli uffici spaziali della Russia, con i cosmonauti, ma capite che con la guerra… la moglie di Rossi Luciani ogni tanto mi dava un aiuto».

Lei era al centro di una galassia industriale e affaristica che le veniva contestata politicamente. Spariti tutti?
«Più o meno. Bepi Stefanel è un amico ma è messo male pure lui. Mi sono rimasti vicino Mario e Marcello Carraro, Ferruccio Macola, Enrico Marchi… poca roba. Ci sono imprenditori che dovrebbero mantenermi, considerato quel che ho fatto per loro».

Cioè?
«Bah, nel turismo, tante cose…».

Berlusconi?
«Contrariamente a quello che si pensa, io con lui avevo un rapporto complicato, non ero esattamente il soldatino aziendale in divisa che avrebbe preferito. E quand’ero governatore i motivi di scontro non sono mancati. Penso per esempio al rigassificatore, che lui non voleva per non danneggiare il gas di Putin. Diciamo che a me preferiva di gran lunga Brancher».

Non l’ha aiutata?
«Quando sono stato arrestato ha dato a mia moglie 100 mila euro, ufficiali eh, una donazione per tirare avanti. Dopo alcuni mesi gliene ha dati altri 100 mila. Insomma, mi illusero che non si sarebbero dimenticati di me. E invece poi più nulla. Mai un incontro, neppure una telefonata».

Come ha letto questo abbandono?
«Io penso che a tenermi lontano sia stato il cosiddetto cerchio magico di allora, il giro stretto di Berlusconi. Sono stato prima blandito con questi soldi, poi mi hanno fatto credere che, se non avessi parlato, avrei fatto comunque la bella vita. L’avvocato Ghedini, che da me non ha voluto un euro, mi ha fortemente consigliato prima di avvalermi della facoltà di non rispondere e poi di patteggiare. Io invece avrei voluto parlare, glielo dissi, ma per Nordio (allora procuratore aggiunto di Venezia, ndr) non ce n’era bisogno, per lui era sufficiente una memoria. E, una volta patteggiato, quando non ero più un pericolo per nessuno, tanti saluti. Capito? Ho fatto il capro espiatorio. Sono convinto di essere stato vittima di un ricatto, al quale ho ceduto perché ero in carcere, avevo una figlia di 7 anni ed ero malato di cuore. Se potessi tornare indietro col cavolo che patteggerei, l’errore più grande della mia vita. E pensare che a Berlusconi avevo fatto anche un gran bel favore».

Sarebbe?
«Ero andato a testimoniare in Tribunale a Milano per lui sulla vicenda Ruby (ottobre 2012, ndr). Era successo che nel 2010, da ministro delle Politiche agricole, fossi presente a un incontro fra Berlusconi e il presidente egiziano Hosni Mubarak. Ero al loro tavolo. In sostanza ho dichiarato di aver sentito che parlavano di una certa Ruby, una cantante egiziana. Non era vero, non avevo sentito nulla».

Ha testimoniato il falso?
«Sì».

Perché?
«Perché era Berlusconi, l’uomo che mi aveva cambiato la vita, che mi aveva reso felice facendomi guadagnare una barca di soldi nell’ambiente più bello del mondo. Perché era la persona più eccezionale che avessi avuto la fortuna di conoscere e frequentare. Ancor oggi non provo rancore nei suoi confronti».

E’ andato al funerale?
«No… mi sono detto: se non aveva voglia di vedermi da vivo, perché avrebbe dovuto vedermi da morto?».

E Dell’Utri, il suo pigmalione ai tempi di Publitalia?
«Lui lo sento, qualche volta andiamo anche a pranzo insieme, paga lui. Ora saranno tre mesi che non viene, penso abbia qualche problema».

Vede altri politici?
«Dei “romani” pochissimi. Ma so che su Crosetto posso sempre contare, Santanché è stata l’unica a venire a trovarmi in carcere, De Poli mi fa sempre gli auguri, poi c’è Prestigiacomo… Ma tutti gli altri sono spariti: devono aver ricevuto qualche ordine di scuderia».

Amici storici?
«Qualcuno è rimasto. Esiste poi un gruppo whatsapp, “gli amici di Giancarlo”, con 30 membri: tutti i miei vecchi consiglieri regionali. Ci ritroviamo circa una volta al mese e andiamo a cena. Pagano loro naturalmente».

Lei aveva fatto un memoriale con una lista di imprenditori che le avrebbero dato dei soldi in nero. C’erano solo quattro nomi…
«Ghedini mi disse che dovevamo dare qualcosa in pasto ai pm perché stessero buoni. Sono estremamente pentito di quei nomi: primo perché le cose non stavano proprio così, questi mi pagavano la campagna elettorale o finanziavano la mia politica, non mi mettevano i soldi in tasca. E poi perché erano 4 su 300, pesci piccoli, i grossi sono rimasti fuori. Comunque è stato  fatto di tutto per non allargare l’inchiesta, si voleva limitare il terremoto al Veneto…».

In che senso?
«Hanno fatto credere che a tirare le fila delle decisioni fossi io ma è noto che a dettare legge sul Mose sono sempre stati il ministro delle Infrastrutture, quello dell’Economia e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, che presiede il Comitatone. Io ero influente certo, ma al momento di alzare le mani contavo un voto, come il sindaco di Chioggia».

Si è sempre detto che il grande mistero dell’indagine resta la politica romana. Il Mose era una questione nazionale e Mazzacurati (ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, deceduto, ndr) elargiva a molti.
«Non ho mai pensato che l’idea di accusarmi sia nata da Mazzacurati, Baita (ex ad di Mantovani, capofila del Consorzio, ndr) e Minutillo (potente segretaria di Galan, i tre allora indagati e poi diventati grandi accusatori, ndr). Nella gestione del Mose manca all’appello un miliardo: è la differenza tra quanto è stato dato in 40 anni al Consorzio e quanto risulta poi effettivamente speso. Ammettiamo anche che io, il grande colpevole, abbia incassato i 5 milioni di cui mi accusano. E gli altri 995 dove sono andati?».

Dove sono andati?
«Eh, proprio su questo doveva indagare la procura. Oltre il 90% dell’illecito non ha ancora un nome».

Non l’hanno fatto anche perché era tutto datato e quindi prescritto.
«Nella storia del malaffare d’Italia rimane questo vuoto enorme… Io dico che la composizione del Consorzio era molto esplicativa: ogni componente era facilmente riconducibile a un partito. C’era la corsa a sedersi al tavolo, io stesso ricevevo continue richieste in questo senso, da ogni parte d’Italia. E poi il Mose non nasce mica con Mazzacurati. Prima di lui c’era Impregilo della Fiat come socio di maggioranza del Consorzio. Di colpo ha venduto la sua quota per una cifra irrisoria a Mantovani. Perché l’ha fatto? Un dubbio che mi assilla».

Lei dice di aver preso un sacco di soldi per il partito. E per lei?
«Non sono un verginello, riconosco di essermi fatto aiutare da Mantovani per ristrutturare villa Rodella. E’ diventata un rudere dopo la confisca, hanno portato via perfino le grondaie. Quanto alla politica, le campagne elettorali costano, solo per l’ultima avevamo speso 1 milione e 870 mila euro».

Il suo più grande errore?
«Non essermi attrezzato per ricattare gli altri. In politica è un’arma indispensabile, garantisce la sopravvivenza».

In che senso?
«Vedo che Ruby vive bene, le olgettine anche. E io stento a campare».

Un nonno avvocato, l’altro banchiere, padre medico, fratello oculista di fama, lei prima alto dirigente di Publitalia e poi governatore. Una vita agiata, principesca. Com’è passare da tutto a nulla?
«Drammatico, perché mi è stato tolto proprio tutto. Sono andato in depressione, ero in cura dallo psichiatra, il più grande esperto di suicidi al mondo. Ci ho messo cinque anni ad andare a mangiare al ristorante e ci sono andato perché mi hanno trascinato gli amici… A volte qualcuno mi riconosce per strada: “Ancora libero!”. Ma io non mi lascio intimidire e rispondo per le rime. Un tempo a Natale mi arrivava un tir di regali e ci campavo tutto l’anno. Sapete quanti ne ho ricevuti l’ultima volta? Tre. I tempi d’oro sono andati. Però è stato bello, ero felice, avevo tutto: potere, soldi, donne. Ora ho solo lei». E accarezza Luna che non l’ha lasciato un momento: «Non è bella ma è una cagnolina tanto affettuosa».

Galan trattiene un sorriso amaro. Si alza, saluta e riprende la via del bosco.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *