E PER FORTUNA CHE TRUMP ERA ANNIENTATO

di MARIO SCHIANI – Se durante i quattro anni della sua prima, e forse unica, nomina a presidente degli Stati Uniti Donald Trump avesse pensato bene di annettersi, con un colpo di mano che avrebbe avuto il solo effetto secondario di provocare una terza guerra mondiale, il tormentato territorio cinese di Hong Kong, oggi potrebbe contare su qualche possibilità in più di conferma alla Casa Bianca.

Nessuno, infatti, neppure nelle remote campagne dell’Alabama o tra le paludi della Louisiana, ha fatto il tifo per lui più degli abitanti dell’ex colonia britannica. Un debito di gratitudine: non c’è altro governo al mondo che abbia denunciato con altrettanta forza e chiarezza la violazione, da parte di Pechino, degli accordi sull’autonomia di Hong Kong. Una semplice mossa sull’ampio scacchiere delle difficili relazioni tra Stati Uniti e Cina, nessun dubbio, ma pur sempre un’azione concreta: dall’Europa è partito solo qualche generico e timido appello alla riconciliazione, dall’Italia, e nella fattispecie dal ministero degli Esteri, nient’altro che un paio di congiuntivi sgangherati. Non che la politica estera di Trump sia stata sempre lungimirante: sulle scorribande della Russia di Putin, infatti, non risulta abbia esercitato altrettanta fermezza.

Ma la politica estera condiziona poco o nulla le elezioni americane e se, come appare possibile e anzi probabile, Trump dovesse perdere la presidenza a favore di Joe Biden dopo una lotta voto a voto e a colpi di ricorsi e carte bollate, le ragioni sono da cercare altrove. Ma prima ancora delle ragioni della sconfitta, gli analisti si misurano oggi nel cercare i motivi di una mancata débâcle: nel 2016 Donaldone fu eletto con poco meno di 63 milioni di voti (contro i 65 di Hillary Clinton, penalizzata dal sistema elettorale), a oggi – conteggi ancora in corso – ne ha racimolati più di 69.

In quattro anni di polemiche, contraddizioni a fuoco rapido, gaffes e tweet più o meno comprensibili, la base di Trump si è dunque allargata, non ridotta. La stampa, specie quella europea, si è spesso divertita a dipingere l’elettore di Trump come un bifolco con fucile a tracolla, panza da birra e tendenze suprematiste. Le telecamere che si sono spinte ai suoi “rally” elettorali hanno pescato tra la folla personaggi degni del generale Pappalardo: negazionisti Covid, complottisti di varia natura, “redneck” sdentati e bigotti Bibbia&Fucile, ma è ora evidente che si tratta di un ritratto parziale e mistificante.

Più probabilmente, chiamati a scegliere tra padella e brace, molti americani hanno favorito Trump perché si sentono minacciati da tensioni sociali che, partendo da episodi di ingiustificabile discriminazione come l’omicidio del povero George Floyd, sono presto sfociate in incontrollabili esplosioni di violenza e anarchia. Oppure si tratta di lavoratori autonomi, partite Iva (“Iva games”?) all’americana che temono per il loro business se l’amministrazione in carica alla Casa Bianca dovesse adottare, nella lotta al Covid, provvedimenti molto restrittivi. Meglio, allora, un Trump che con la sua tipica sicumera ha finora fatto di tutto per sminuire il problema, salvo incontrarlo in prima persona, millantando cure inesistenti, vaccini pronti all’uso e limitandosi a fare del virus un’arma di polemica anti-cinese. C’è da dubitare che tutti gli abbiano creduto con la stolidità dei negazionisti più ciechi: la gente, semplicemente, vuole risposte dirette ai suoi problemi e la linea di Trump sul tema, qualunque sia stata, appariva, se non una soluzione, almeno non una minaccia.

Va detto anche che se Trump ha ancora tanti sostenitori, dall’altra parte parecchi si sono mobilitati per dargli il benservito. Joe Biden ha totalizzato al momento oltre 73 milioni di voti: un record assoluto per un candidato alla presidenza. Non è facile credere che questo consenso gli venga tutto da un carisma personale che, in realtà, pare piuttosto annacquato. Ancora, tra padella e brace chi voleva sfrattare Trump della Casa Bianca si è dato una mossa e ha scelto quel che gli veniva offerto.

Se dunque è mancata la ventilata “ondata democratica”, come i commentatori conservatori registrano oggi con soddisfazione, non si può neanche dire che la gente sia rimasta indifferente alla gestione “alternativa”, diciamo così, imposta da Trump agli affari americani. Rimane sul terreno un Paese diviso, in cerca di qualcuno che lo ascolti per davvero. Non a caso Biden, nel suo discorso di quasi-vittoria, ha parlato di riconciliazione e collaborazione. Non basta più dar ragione al proprio elettore per conquistarselo: adesso bisogna che qualcuno gli tenda la mano per davvero.

Da un punto di vista squisitamente politico verrebbe da dire che, con la possibile sconfitta di Trump, i veri vincitori della tornata elettorale sarebbero i repubblicani, i quali hanno raccolto crescenti consensi alla Camera e tenuto bene al Senato e, nel voto andato al presidente in carica, vedono un potenziale bacino di elettori da coltivare nei prossimi quattro anni, ora che Donaldone, personaggio scomodo e ingestibile anche, se non soprattutto, per loro, potrebbe essere messo da parte. Come dire: il perfetto “delitto” elettorale.

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