DI PADRE IN FIGLIO

È sempre il solito e trito luogo comune, la solita lagna dei moralisti a chiedersi dove sono i genitori di questi ragazzi che paiono perdere il senno. Questi giovani intraprendenti che in realtà il senno non lo perdono, perché non lo hanno. Prima, durante e dopo la tragedia continuano a mostrarsi fuori sintonia, un rumore bianco che non trova consonanza con lo sfacelo causato, e il pensiero corre sempre in quella direzione: che educazione hanno avuto questi ragazzi?

Svegli, dinamici, risoluti, ma con quali insegnamenti, con quali valori, con quale senso della misura e del rispetto?

Così accade anche per Matteo Di Pietro e per i suoi calamitosi compagni, ma anche questa volta, come molte altre in passato, non è possibile sfuggire alla lagna moralista, alimentata da informazioni, immagini, filmati.

Solo un’impressione, solo uno sgradevole retrogusto, ma vedere i Di Pietros, padre e figlio, uno a fianco dell’altro a bordo di una Ferrari mentre sono alle prese con una sfida delle loro, quelle della “Borderline srl”, per coronare uno dei sogni del genitore, a sentire quel che dice il figlio, fa un po’ accapponare la pelle. Riavvolgendo il nastro del tempo, facendo finta che ancora la tragedia non sia accaduta, fa riflettere che un padre possa essere fiero di un figlio che fa soldi in quel modo, mostrandosi in commenti sguaiati e idioti su Youtube. Possibile che il padre sia orgoglioso di un simile virgulto?

Il pubblico di quelle smorte imprese è anche peggio degli attori, questo non si discute, ma può un padre esser fiero del figlio giusto in virtù dell’incasso? Può un padre essere anzi al fianco del figlio, senza cintura su quella Ferrari, perché stona ed è un po’ da pecoroni mettersela su un tale proiettile, e in fondo dare a intendere che è così contento di aver cresciuto un tale rampollo? Può.

Non significa nulla e non ci sono condanne, sempre a posteriori si scopre che il babbo è stato implicato in varie storie di ammanchi e torbidi maneggi nelle casse del Quirinale e della Tenuta presidenziale, dove lavora e risiede da anni. Non significa nulla, ma mettendo insieme un po’ tutto quanto, l’inconscio adattivo innesca un po’ di malessere. Le sfide, la Ferrari, la Lamborghini, l’impiego statale alle casse del Quirinale, le inchieste che vanno e vengono, il benessere e le ambizioni dei figli agiati che non si scostano dall’apparire e dall’intascare, Roma e la grande bellezza insomma. Tutto lecito, tutto legale, tutto un po’ misero e sottovuoto spinto.

Stare a Roma e in quell’ambiente aiuta. Aiuta a sentirsi capo del mondo, a pensare che gli altri sono tutti un po’ sfigati, e infatti la Smart è roba da Conad come dice il figlio Matteo. Non è il lavoro 2.0 (o 3, 4 dove siamo arrivati non saprei), o la sfida in sé, è il fatto che i padri innanzitutto non vedono la vacuità su cui è fondata quell’azienda. L’assenza di virtù, di valore, se ancora si può usare questa parola inflazionata ma imprescindibile. E l’assenza di un freno, di un muso duro, almeno di un tentativo: possibile che il padre non avverta la dignità del figlio, e di riflesso la propria, avvilita nel vedere quei miseri filmati da mentecatto isterico nei quali con voce stridula dà sfogo alla propria stupidità?

Possibile, evidentemente. Forse la genia è la stessa dei padri che poi difendono i figli qualunque schifezza abbiano commesso, perché altrimenti vorrebbe dire mettere in piazza il proprio fallimento, dichiarare apertamente che quella dissennatezza ha impressi i propri geni.

Che lavoro fai, Matteo?

Io lavoro sui social, faccio le sfide, una roba impegnativa che può essere anche pericolosa, ci si può fare male. Oppure può rimanerci secco qualcun altro, per esempio un bambino, il massimo dell’innocenza, anche se magari non c’entra nulla, fa parte dei rischi.

Faccio le sfide, mi pagano bene, e il mio papà è fiero di me.

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