CUORE E CERVELLO IN LOTTA SULL’AFGHANISTAN

di ARIO GERVASUTTI – E’ più importante il cuore o il cervello? Non so dare una risposta, men che meno oggi dopo che per tutta la mattina ho visto e rivisto le scene sconvolgenti degli afghani che precipitano dalle ali degli aerei sulle quali erano saliti nel disperato tentativo di sfuggire alla morsa dei talebani.

Il cuore mi dice di prendere tutta la flotta inutilizzata dell’Alitalia e qualsiasi altro aereo civile o militare, e mettere in piedi subito un ponte per salvare tutti. Poi leggo che il governo austriaco ha deciso di non interrompere il rimpatrio forzato degli afghani che richiedono asilo a Vienna, e la prima reazione è un reflusso allo stomaco. Il cuore e la pancia reagiscono così, mosse dall’istinto. Cerco quindi di usare il cervello e capire che cosa spinga un uomo a simili decisioni, e scopro con raccapriccio che non ha tutti i torti, che non è una follia campata in aria.
Provo a spiegarmi.

La giustificazione ufficiale del governo austriaco è la seguente: “Interrompere le espulsioni sarebbe un segnale sbagliato ed è probabile che motiverebbe ancor più cittadini afghani a lasciare il proprio Paese e venire in Europa. Chi ha bisogno di protezione deve ottenerla il più vicino possibile al proprio Paese d’origine”.

La giustificazione reale la danno invece i sondaggi, che spiegano come il 90% degli austriaci (quindi a prescindere dall’orientamento politico, da destra a sinistra) è d’accordo con la decisione del proprio governo per una serie di motivi che mi hanno fatto vacillare. Perché in effetti la domanda su che cosa spinga un afghano ad attraversare il mondo per rifugiarsi a Salisburgo non è peregrina: se io dovessi scappare dall’Italia, chiederei rifugio in Arabia Saudita, nel Congo, al Polo Nord oppure lo chiederei a un Paese il più possibile vicino alla mia cultura, alle mie tradizioni, al mio modo di vedere la vita? La risposta è: dipende. Dipende se voglio cambiare il mio modo di vivere o se voglio mantenerlo. E qui sta il cuore della risposta degli austriaci (dei cittadini, non dei politici), che si potrebbe prosaicamente sintetizzare così: vuoi venire in Austria perché il tuo Paese è invivibile? Allora ti vesti come un tirolese, mangi wurstel di suino e tingi di biondo i capelli di tua moglie. Ti prendi tutto il pacchetto, annessi e connessi: non puoi chiedere di venire a casa mia e pretendere di mantenere usi, costumi, leggi e tradizioni che hanno portato il tuo Paese d’origine nella situazione in cui si trova. Altrimenti, prima di arrivare in Austria ci sono tanti posti dove la vita è molto più vicina alle tue esigenze: Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Iran, Pakistan, Turchia, Arabia Saudita, c’è l’imbarazzo della scelta.

Il cuore (e un po’ anche lo stomaco) a questo punto la buttano in politica, non senza qualche ragione: ma come, siamo noi occidentali che abbiamo mandato migliaia di soldati a “esportare la democrazia”, a spiegare agli afghani che loro sono il medioevo e noi siamo il futuro, e adesso che li abbiamo convinti li scarichiamo e gli chiudiamo le porte in faccia?

Quel diavolo di cervello però ha una risposta niente male: è vero, per 20 anni abbiamo cercato di fare un “trapianto di democrazia” che si è concluso com’era prevedibile con un rigetto. Perché la democrazia – o più prosaicamente il modo di vivere occidentale – non è un abito che indossi e cambi se non ti piace. E’ il frutto imperfetto di duemila anni di storia, di rivoluzioni, medioevi, rinascimenti, guerre dei Trent’anni e guerre mondiali, di genocidi, di guerre di Secessione e di Liberazione. Ce l’abbiamo nel sangue perché ci è costato sangue. Per 20 anni abbiamo offerto – maldestramente, ma comunque offerto – un appiglio al quale aggrapparsi, un’alternativa, una scorciatoia. Più o meno quello che fecero gli americani quando cacciarono i nazifascisti dall’Italia. Con una differenza, appunto: che qui il 90% delle persone colse l’occasione; là il 90% delle persone accoglie i talebani come liberatori, così come gli iraniani negli anni ’70 accolsero il ritorno degli ayatollah.

Quelle migliaia di afghani in disperata fuga non sono “il popolo afghano”: sono una minoranza che ai nostri occhi appare “illuminata” quanto tradita, ma che in 20 anni non è riuscita a convincere il resto dei loro concittadini che un mondo diverso era possibile. Colpa nostra? Può darsi: ma non è razionale né onesto accollarsi l’esclusiva del fallimento.

E questo vale per tutti gli Afghanistan del mondo, ai quali noi europei (gli americani sono un discorso a parte) dobbiamo soprattutto coerenza. Se non è giusto pretendere di esportare la nostra “way of life” a casa loro, non è nemmeno giusto che siamo noi a farci carico di chi lascia la propria terra perché la sua “way of life” è insostenibile e però chiede di mantenerla e proseguirla qui. Tertium non datur. E così quel diavolo di cervelletto è soddisfatto. Ma il cuore sanguina, e lo stomaco fatica a digerire.

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