COSA RESTA E COSA BUTTARE DELLO SMART WORKING

Le regolamentazioni dello smart working fatte a colpi di imposizioni mi fanno ridere. Eppure, se ci guardiamo indietro, la rivoluzione è avvenuta solo quattro anni fa. Quando è arrivato lo tsunami Coronavirus che ha catapultato all’improvviso a casa milioni di lavoratori, assolutamente digiuni di connessioni remote, di videocall e di click-nei-link.

Abituati alla routine dell’ufficio, ci siamo dovuti adattare ai nuovi ritmi e alle modalità così strambe, come parlarsi continuamente ed ossessivamente attraverso il computer e il telefonino, o come interessarci di particolari tecnologici fino a un momento prima ignorati con sufficienza. Non solo questo è successo. Abbiamo invaso anche la tranquillità delle nostre case, mariti e mogli non abituati a vederci così tanto ci hanno accolti al pari di ostili invasori della propria privacy e degli attimi di relax. Colazioni abbondanti, spuntini a qualsiasi ora, pranzi e cene anticipate, uno scompiglio totale. Discussioni che di solito erano contenute in tempi ordinati hanno tracimato nella nuova quotidianità con questi rumorosi e sconosciuti alieni.

Aziende abituate a questi ritmi, le cosiddette native digitali, e quelle più metalmeccaniche hanno dovuto prendere atto e darsi una rapida mossa per reagire al nuovo. Le prime, con una certa nonchalance, hanno mostrato la loro capacità di adattamento, per poi pentirsi in modo eclatante e richiamare legioni di impiegati, che si erano dati alla macchia. Non era proprio una scelta ponderata, diciamocelo, amici della Silicon Valley. Siete tornati indietro, rinnegando la vostra modernità, peggio dei bancari degli anni ’70, per intenderci quelli con il didietro attaccato alla sedia e profeti della pausa caffè. I colleghi delle aziende più tradizionali hanno, invece, fatto molta più fatica all’inizio – la peggiore sensazione, quella di non poter controllare a vista le proprie persone -, ma poi ci hanno preso gusto, assaporando quella libertà vigilata ma al tempo stesso ariosa e che ti permetteva di goderti qualche ora in più fuori dall’azienda.

Finita la vera emergenza, si è trattato di ragionare sul giusto livello di lavoro da casa (smart working) e lavoro in ufficio/fabbrica (traditional working). In questi momenti è stato necessario abbandondare gli estremismi talebani del “tutti a casa” o “tutti in ufficio” e usare la testa per ragionare. Nella mia esperienza, siamo arrivati alla conclusione che fosse corretto un equilibrio leggermente più sbilanciato a favore del lavoro da remoto, con la soluzione del fino a tre giorni a casa e due in ufficio nella settimana tipo. Hanno firmato tutti, nessuno escluso, e la prova dal vero sta convincendo anche i più scettici. La gente sta volentieri a casa, ma torna altrettanto con piacere in ufficio, sapendo bene che sono stati stabiliti dei confini.

Sta forse qui il segreto, adesso che per legge si sancisce la fine del regime di emergenza: essere contenti in tutte e due le situazioni, volerle fortemente entrambe e monitorarle di continuo. Infatti, circolano facce sorridenti sia tra i colleghi in ufficio, sia nelle videocall. Non va trascurato il fatto di aver preparato, nel frattempo, le necessarie modifiche, come: un ottimo kit per poter lavorare comodamente da casa e aver pensato anche a migliorare i posti di lavoro.

Credo che chi si sia dato da fare per affrontare il cambiamento con gli strumenti giusti e, soprattutto, con una mentalità rivolta al futuro, abbia colto in modo positivo l’arrivo del nuovo. Ascoltando la gente e le sue esigenze, sforzandosi di trovare cosa serve davvero, con modalità che possono essere diverse da caso a caso. Sono le stesse organizzazioni che non si sono perse nel periodo del Covid, anzi. Le regole scritte su quanto e come lavorare arrivano soltanto dopo, in modo del tutto naturale, senza rispondere a nessun tipo di algoritmo medio studiato a tavolino, inefficace per definizione.

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