COSA C’E’ DIETRO LA GRANDE FUGA DAL POSTO DI LAVORO

Da un po’ di tempo a questa parte si parla di “grandi dimissioni” o di “quite quitting” (dimissioni silenziose, cioè quelli che dietro il monitor si fanno i fatti loro), le ultime ricerche confermano che addirittura il 33% degli occupati in Italia vorrebbe lasciare il proprio posto di lavoro entro l’anno.

La prima domanda popolare-populista che sorge è perché con tutta la disoccupazione che abbiamo, questi pensano ad andarsene via, abbandonando uno stipendio regolare per un futuro incerto. Sì, particolare importante è che nessuno di loro ha un’alternativa, cioè vanno serenamente dritti verso la disoccupazione. E’ una questione molto dibattuta dentro le aziende, che si interrogano sul da farsi.

Passato il primo più che legittimo momento di permalosità occupazionale del tipo “se sono così scontenti di noi se ne vadano pure”, è molto più intelligente porsi delle domande e provare a trovare qualche soluzione.

Ho partecipato a un convegno universitario in cui si è parlato anche di questo e sono stato colpito dall’efficace presentazione di un consulente, che ha riassunto molto bene il pensiero che mi ronzava in testa e che cercavo invano di esplicitare. Eccolo: fin dai colloqui di assunzione la domanda che non ci dobbiamo più porre come guida assoluta è “quanto interessante o attraente è il candidato per l’azienda”, ma bisogna semplicemente rovesciarla in “quanto interessante o attraente è l’azienda per il candidato”.

E’ stata una folgorazione. Mi sono messo a pensare che non esistono più certi assunti monolitici e unidirezionali, in un mondo che cambia anche la blasonatissima impresa deve farsi un make up e diventare seducente, al di là della forza del marchio, della storia, dei numeri, blablabla. Non è facile e sembra quasi di dover viziare i nuovi assunti oltre il lecito. Può darsi, però basta parlare con i giovani per capire che le prime cose che ti chiedono sono lo smart working, l’orario flessibile, e le dotazioni aziendali. Inutile arricciare il naso e spostare l’attenzione su altri argomenti considerati più solidi, se non ti sei adeguato e non sai rispondere alle nuove esigenze sei già quasi out dopo pochi istanti.

E’ un forte segnale che non va trascurato, soprattutto quando si entra in azienda è ancora più importante continuare questo gioco bidirezionale di seduzione-convincimento. Non finisce certo dopo i fatidici mesi di prova. Anzi, se abbandoni le persone al loro destino si sentiranno piano piano sempre meno coinvolte e si trasformeranno in quel piccolo esercito che si nasconde dietro un video, ma che di fatto si spegne senza che nessuno se ne accorga. Anche questo è un esercizio che tante aziende sottovalutano perché pensano di avere conquistato la fedeltà dei propri dipendenti senza manutenerla, in nome del catartico 27 del mese. Non basta più. I soldi sono sempre un’ottima motivazione, ma la gente vuole ben altro, a partire dal sentirsi una parte integrante dell’organizzazione. I giovani vogliono capire quello che stanno facendo, il perché, avere chiaro il contesto in cui si trovano, essere regolarmente informati, partecipare attivamente alla vita aziendale, aiutare quando le cose vanno male, celebrare quando vanno bene. Sembra tutto logico e scontato, purtroppo non è così. Ancora oggi si tende solo a dare incarichi e a coprire ruoli, ma sono in pochi a far sentire importante ogni singolo individuo-dipendente, valorizzandone il lavoro svolto a qualsiasi livello gerarchico.

Per aiutarci a capire meglio proviamo a pensare ai nuclei familiari e a come si comportano i genitori con i figli: quelli bravi si preoccupano responsabilmente alla comparsa dei primi segnali significativi e si danno da fare per cambiare, senza farla troppo lunga.

Vista così la faccenda, allora, le responsabilità delle grandi dimissioni palesi o silenti possono essere provocate anche da chi pensa che il lavoro basti a se stesso, senza capire un malessere che viene da lontano e che non si è curato. Non buttiamo la croce addosso solo ai lavoratori che già abbiamo catalogato frettolosamente come svogliati e viziati. Troppo semplice, non porta da nessuna parte.

Un pensiero su “COSA C’E’ DIETRO LA GRANDE FUGA DAL POSTO DI LAVORO

  1. Luisa F. dice:

    Buongiorno Dott. Magri, è proprio vero: “I giovani vogliono capire quello che stanno facendo, il perché, avere chiaro il contesto in cui si trovano, essere regolarmente informati, partecipare attivamente alla vita aziendale, aiutare quando le cose vanno male, celebrare quando vanno bene”.
    Ci sono, inoltre, dei contesti dove la salute mentale e il benessere dei lavoratori non hanno alcuna importanza e dove il work life balance non viene considerato un valore. E da questi contesti che, giovani e meno giovani, stanno “scappando”. Sperando che non sia un fenomeno passeggero, ma porti davvero a un cambiamento di visione nel mondo del lavoro

    Grazie e saluti

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