CONTRORDINE: SI CAMBIA IL MISTER SOLO SE VINCE

Dopo quell’hashtag popolare che oggi ci suona così sinistro e iettatore, #andratuttobene quando bene non è andato niente affatto, la prudenza nell’analisi degli scenari di vario genere deve avere il passo dell’esploratore in palude. Anche quando si parla di amenità tipo gli allenatori di calcio.

Quindi, inizialmente, limitiamoci alla curiosità di un dato statistico comunque in evidente, netta controtendenza rispetto agli usi e costumi del pallone, diciamo al limite dell’incredibile: la serie A 2023-24 ripresenterà ai nastri di partenza ben 16 allenatori su 20. I presidenti hanno fatto i bravi, rispettando i contratti e non scialacquando soldi stracciandoli per incompatibilità o fumi iracondi del momento. Anzi, uno se n’è andato per propria scelta, Luciano Spalletti campione d’Italia, incredibile anche questo. Ha voluto fermarsi per un po’ sul trattore della sua campagna, a meditare e rilassarsi con nipotini e familiari. Il che consentirà di rivedere dalle nostre parti quella specie di genio incompreso di Rudi Garcia. Baroni a Lecce non ha avuto il biennale su cui contava, dopo una salvezza non brillante ma comunque centrata: sentendosi in bilico per la proposta di un rinnovo di soli 12 mesi, ha salutato il Salento ed è sbarcato a Verona (dove – per la cronaca – hanno liquidato con non poca ingratitudine il duo Zaffaroni-Bocchetti, autori della vera impresa dell’anno avendo rianimato miracolosamente una squadra in apnea). Il Frosinone approda in A congedandosi dal capitano di vascello Grosso, riesumando per l’occasione quel Di Francesco che ultimamente ha collezionato solo flop.

La grande novità, o magari è solo una combinazione, comunque a dir poco stravagante: cambiano quattro società che sono andate bene, ciascuna per i propri obiettivi: Napoli, Lecce, Verona, Frosinone.

Per il resto, stesse facce, eppure ognuna con una maschera e una storia da raccontare. Inzaghi, mi viene in mente per primo: segato in primavera prima dal popolo poi dallo stesso dg interista Marotta, ha giocato la finale di Champions e quindi si è inchiodato allo sgabello. Allegri, mi sovviene, alla Juve a dispetto di santi e di demoni: ingaggio troppo alto, spropositatamente alto per pagargli pure la liquidazione dopo un’annata orripilante. Per di più il club ci ha messo del suo a minare le poche certezze della squadra, quindi avanti insieme.

Le romane erano e restano a posto: Mourinho ha abbaiato e minacciato, poi è rimasto. Sarri è riuscito a sganciarsi dal direttore sportivo col quale non si azzeccava, Igli Tare, quindi prosegue a braccetto di Lotito. Stefano Pioli addirittura ha raddoppiato: nel ciclone che ha investito il Milan a giugno, via Ibra Massara Tonali e soprattutto Paolo Maldini, si è trovato investito della carica di manager tuttofare dalla dirigenza angloamericana, ma in realtà dialoga solo con il talent scout Moncada e con il dirigente più alto, Furlani, indicando i pezzi (parecchi) che mancano al mosaico. Infine Gasperini che, borbottando (da 2 anni) anche sopra le righe per il basso profilo dei suoi dirigenti in tema di ambizioni e acquisti, non lascia l’Atalanta Bergamasca Calcio.

Il resto sono conferme sudate con lavoro, lacrime e sangue, più qualche festa sparsa: le salvezze tranquille di Zanetti a Empoli, Paulo Sousa a Salerno, del sorprendente Palladino a Monza, la promozione dell’evergreen Ranieri a Cagliari, dello stupefacente Gilardino al Genoa. I medici di campagna restano al momento tranquilli nel loro tran tran di periferia: Dionisi a Sassuolo, Juric a Torino, Sottil a Udine, Thiago Motta a Bologna, mentre Italiano ha rifiutato Napoli per restare a Firenze con, you know, Commisso e riprovare ebbrezze europee.

Tutto molto bello, fino al prossimo pareggio, fino alla prossima sconfitta… Dopo di che vedremo.

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