CULTURA BRIATORE

I falegnami non riescono a tirare avanti a causa delle tasse e della burocrazia. I figli dei falegnami allora vanno all’università, visto che non c’è modo di portare avanti l’azienda di famiglia. I falegnami quindi scompariranno. Ne consegue che il figlio di Flavio Briatore non andrà all’università.

Io ho capito questo dalle parole del bilionario piemontese dette a “Carta Bianca”. Un trattato criptico e cristallino allo stesso tempo, un trattato che parla più di sé che dei falegnami in realtà, ma non è una novità. L’ego è un talento, bisogna averlo tutto, anzi parecchio, per dire certe cose.

Innanzitutto devo dire che è anche possibile che i falegnami scompaiano, da qui a qualche anno, ma il motivo non sarà certo quello che suggerisce Briatore. La disamina tantomeno. Sarà piuttosto vero che certe professioni esercitano sempre meno fascino, certo, ma tra i principali responsabili ci sono proprio persone come lui, megafoni di una cultura che vuole degno di considerazione solo chi sta a debita distanza dalla realtà. Una cultura che non contempla chi fa le code, chi si accontenta, chi si sporca le mani, chi vive a fatica, o magari serenamente, il proprio arrancare quotidiano.

Secondo i Briatore, chi non osa, chi non pensa in grandissimo non è degno. Di che cosa non so bene, ma non è degno. E se non osa poco importa il motivo, perché per i Briatore si può solo essere ricchi sfondati o almeno provarci. L’alternativa è diventare un fallito.

Cosa dovrebbe invece dire un dirigente, uno assennato, uno che non pensa solo in termini economici ai giovani di oggi? Ad esempio che è importante studiare, non per ripiego? Ad esempio che si può essere laureati e scegliere comunque di fare il falegname, professione tra le più nobili? Ad esempio, per qualche secondo, perché poi hai solo voglia di non farti cadere le braccia, tornando allo sconfortante Flavio.

La scuola sta indigesta a Briatore, lo sappiamo. I suoi trascorsi sono emblematici. Siccome non si riesce a venirne a capo, perché le condizioni sono proibitive, allora bisogna arrangiarsi. Certo, la scuola così com’è risulta inaccettabile, bisogna studiare, bisogna leggere, la burocrazia è insopportabile, tutti questi esami, queste interrogazioni, dai, non è vita: quando si comincia a guadagnare? E chi te lo insegna?

E allora è normale che il figlio di un Briatore non vada all’università, al contrario del figlio del falegname, seguendo la sua ferrea logica: è tutto un mettere i bastoni tra le ruote con queste prove e controprove, non è proprio vita. Che sia Nathan Falco a decidere nemmeno è contemplato al momento, ma chissà.

Briatore arriva a dire all’insegnante di suo figlio, presso la scuola internazionale di Montecarlo, mai più quella pubblica di Verzuolo, che non si deve permettere di insegnare Pirandello a suo figlio: “Guardi che questi ragazzi qui sono italiani, ma l’italiano è la terza lingua”. Che Pirandello possa fare bene sempre e comunque in qualsiasi scuola del mondo naturalmente a lui nemmeno viene in mente.

Questo, infine, ho capito io: il figlio di Briatore non andrà all’università e nemmeno farà il falegname.

Forse, in un momento di illuminata e sana ribellione nei confronti del padre, colpevole quantomeno del nome che gli ha rifilato, comincerà a leggere Pirandello e finalmente avrà inizio l’evoluzione della specie.

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