COME L’E-COMMERCE STA DIVORANDO LA NOSTRA TERRA

Qualche anno fa, in un suo spettacolo, il comico Antonio Albanese, vestiti i panni – completi di collare ortopedico – dell’industriale ad alto tasso di brianzolità Ivo Perego, raccontava in breve una storia di famiglia: “Mio nonno ha costruito il capannone piccolo, mio padre ha costruito il capannone grande, io ho costruito il capannone grandissimo. Mio figlio si droga”. Come dire: bella cosa il progresso, gran motore l’industria, però alla fine c’è sempre qualche cosa che va storto.

Si applica anche a noi la morale sottintesa alla storia del Perego? A prima vista, no: drogare, non ci droghiamo (almeno si spera); comunque non con le droghe alle quali lui faceva allusione. Dai capannoni, poi, prendiamo solo il meglio. Non saranno una meraviglia per il paesaggio, ma non c’è tanto da far le mammolette: l’economia deve spingere, il Pil salire e il fatturato anche. Altrimenti tutto va a catafascio e “te saludi” anche il comico Albanese: non ci sarebbe più niente da ridere.

A guardar bene una droga, una droguccia, la prendiamo anche noi. Come tutte le droghe, dà assuefazione, tanto che oggi non sapremmo immaginare un mondo in cui essa non facesse parte delle nostre giornate. La droga si chiama “clic”, o meglio, in termine tecnico, “e-commerce”: quel sistema che, tramite Internet, mette a disposizione di noi consumatori milioni di prodotti differenti, tutti raggiungibili, appunto, con un “clic”, pronti a materializzarsi, consegnati da un corriere, alla porta di casa. La droga è entrata talmente in circolo che l’accettiamo solo in dose “strong”: una consegna che dovesse arrivare in una settimana o anche soltanto in due giorni già ci manda in crisi d’astinenza. La merce deve materializzarsi domani, e magari pure sul presto, altrimenti non vale. In questo, da “spacciatore”, Amazon batte tutti: come ampiezza di prodotti offerti e come velocità di consegna ancora non ha rivali.

Noi, da bravi drogati, ci occupiamo solo di quel che ci interessa direttamente, ovvero che il prodotto sia disponibile e che arrivi presto. Quel che c’è in mezzo potrebbe anche non esistere. Di fatto, per noi, non esiste.

Per chi lavora nell’e-commerce, invece, esiste eccome. Quel che c’è in mezzo è un business valutato, in Italia, circa 35 miliardi all’anno. In mezzo c’è però anche il prezzo pagato dalla collettività. Se per esempio ordiniamo una singola scatola di puntine da disegno – e qualche volta lo facciamo – mettiamo in modo un meccanismo che comporta, tra le altre cose, il trasporto fino alla nostra abitazione da svariati chilometri di distanza, con conseguente emissione di gas di scarico nell’atmosfera. Non solo, il cartolaio di quartiere, distante magari cinquanta metri, muove un altro passo verso il declino della sua attività.

L’e-commerce comporta poi – e forse soprattutto – la costruzione di capannoni sempre più grandi, sempre più numerosi, per lo stoccaggio delle merci e la gestione logistica del sistema. Perego, a questo punto, potrebbe ribaltare la sua storia: “Tuo nonno si droga con l’e-commerce, tuo padre si droga con l’e-commerce, tu ti droghi con l’e-commerce. E io costruisco il capannone grandissimo”.

L’allarme riguarda il terreno che queste strutture, necessarie al funzionamento del sistema di cui sopra, consumano ogni anno. I numeri sono noti, perché li ha pubblicati l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) che è un ente pubblico di vigilanza sottoposto al controllo del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. “Logistica e grande distribuzione organizzata – scrive l’Ispra – figurano tra le principali cause di incremento della superficie consumata su scala nazionale negli ultimi anni in Italia. Le trasformazioni sono riconducibili all’espansione o all’adeguamento dei fabbricati, dei piazzali e delle strade di accesso ai grandi poli”.

I dati dicono che – sorpresa – a consumare più terreno di tutte sono le regioni del Nord Est e del Nord Ovest: dal 2006 al 2020 rispettivamente 1.671 e 1.539 ettari. La differenza sta nel fatto che il Nord Est distribuisce il consumo su più regioni (843 ettari l’Emilia-Romagna, 772 il Veneto, 35 il Friuli-Venezia Giulia e 21 il Trentino-Alto Adige), mentre il Nord Ovest concentra buona parte del “consumo” in Lombardia (in particolare a Milano): 1.012 ettari contro i 514 del Piemonte.

Nel riferire dello studio dell’Ispra, le piccole e medie imprese italiane sottolineano nel loro portale web il paradosso per cui al consumo di terreno da parte delle multinazionali dell’e-commerce non corrisponde un ritorno in termini fiscali: “Questi giganti pagano le tasse in nazioni dove i vantaggi sono alti, senza compensare gli aggravi ambientali provocati nei Paesi dove invece operano”.

Le piccole e medie imprese italiane sono ovviamente parte in causa, perché soffrono duramente la concorrenza dei grandi dell’e-commerce, con i quali, per non rimanere tagliate fuori, sono spesso costrette a stringere accordi non proprio paritari.

A noi drogati del “clic” potrebbe anche importare poco di questi meccanismi: la convenienza dei prezzi e del servizio sono fattori che sempre hanno giocato un ruolo nel commercio e, più su grande scala, nell’economia, ed è difficile se non impossibile chiederci, oggi, di ignorarli. Qui però non c’è in ballo “solo” l’interesse di un settore economico, ma la salute geofisica, se così si può dire, del luogo in cui viviamo. Mentre noi usciamo sempre meno di casa, qualcuno va alla conquista degli spazi rimasti liberi. Spazi che da sempre rendono una città e una regione vivibile, salubre e sicura dal punto di vista geologico.

L’unica “buona” notizia e che, tra poco, ordinato un prodotto online non sarà più necessario attendere neppure qualche ora per riceverlo: ce lo tireranno direttamente dal capannone di fronte.

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