CHISSA’ PERCHE’, TRA I MAEHLE E I GASP SCELGO COMUNQUE I GASP

Joakim Maehle, terzino danese transitato come una meteora in serie A con la maglia dell’Atalanta nelle due ultime stagioni e ora al Wolsfburg, non le ha mandate a dire al tecnico nerazzurro GianPiero Gasperini. Il carneade d’Oltralpe ha parlato dell’esperienza bergamasca come di “un incubo, una prigione”, causa la dittatura del tecnico “che decideva tutto, che condizionava la nostra vita, che ci costringeva ad allenarci continuamente e a dormire al campo sportivo”. Secondo Maehle, il Gasp brontolava anche sulle coppie che si creavano per andare e venire da casa al lavoro.

Come sia riuscito a resistere due anni e non soltanto uno, il soldatino nordico, agli ordini del ducetto in panchina, è un bel mistero. Se un vigile urbano si lamenta per il troppo traffico, è già fuori luogo per definizione. Se a farlo è un calciatore, sempre così attento a sottolineare gli svantaggi di una professione in cui la declinazione del verbo è “giocare”, sempre così accorato nel raccontare i sacrifici, la brevità della carriera, le rinunce alimentari, sessuali eccetera, beh, non può che strapparci il sorriso.

A Maehle non è neanche passato per l’anticamera del cervello soffermarsi sul fatto che il regime del Gasp, dal 2016 ad oggi, abbia portato l’Atalanta ad essere tra i club più competitivi in Italia con finestre sull’Europa. Avendo tra l’altro a disposizione giocatori che, molto spesso, una volta che se ne vanno si dissolvono in vari strati di nebbia.

Le rivelazioni postume, senza bisogno di elevarsi a quelle vaghe e destabilizzanti del presidente Giuliano Amato sulla tragedia di Ustica, risultano sempre sgradevoli e un tantino vigliacche. Non ho apprezzato gli strali rivolti da Marco Van Basten ad Arrigo Sacchi, nella sua biografia, 30 anni dopo il ciclo più entusiasmante nella storia del Milan. Né quelli di Manuel Locatelli al primo raduno della Nazionale di Luciano Spalletti, relativi agli ultimi tempi azzurri con Mancini.

Ben venga piuttosto Charles DeKetelaere il quale, dopo il clamoroso flop in rossonero nell’ultima stagione, dà le colpe a sé medesimo, peraltro non rinunciando a un appunto sui minuti di utilizzo e sul ruolo impostigli dal tecnico Stefano Pioli.

Penso che il coraggio della verità si debba avere mentre i fatti avvengono, mentre le esperienze si vivono, e non vadano affidate ai posteri e tanto meno ai cronisti: basterebbe guardare in faccia l’interlocutore e confrontarsi con schiettezza, professionalità ed educazione.

Forse chiedo troppo a chi in realtà, ai privilegi oggettivi del più bel mestiere del mondo, antepone sempre le sofferenze, come quando li sfiori in un contrasto e hai poi la sensazione di avergli amputato un arto, viste le sceneggiate e le urla. Di buono c’è che, ad ogni occasione in campo e fuori, si rialzano rapidamente e tornano a zampettare spensierati.

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