CHI LI CAPISCE I NUOVI ROBOT

Nel momento stesso in cui ci si accosta ad articoli di ambito scientifico si scoprono due cose: 1) la scienza ha dei limiti ben precisi, 2) la nostra ignoranza no. Prendiamo i robot, per esempio.

Siamo tutti cresciuti, credo, con l’idea che i robot dovessero avere una forma vagamente umana. Dopo tutto la parola “robot” viene dal ceco “robota” che vuol dire “lavoro”. Essi vengono dunque concepiti in origine come sostituti dell’uomo nello svolgimento di attività pesanti e ripetitive: meglio dunque che abbiano mani, braccia e gambe perché senza quelle è difficile lavorare in catena di montaggio e scaricare cassette al mercato. Per tanto tempo ci hanno fatto credere che sarebbe andata così: nei libri come nei fumetti, al cinema come in televisione, i robot si presentavano come goffe imitazioni della figura e della macchina umana. Lampadine al posto degli occhi, antenne dove noi abbiamo installate le orecchie, una griglia simile al radiatore della Topolino laddove trovasi la bocca e assolutamente nessun accessorio nelle parti basse: su certe attività, evidentemente, avevamo subito deciso di mantenere una rigorosa esclusiva.

Nella realtà, però, abbiamo presto scoperto che i robot non ci assomigliavano poi  tanto: la loro forma era piuttosto stabilita in ragione della funzione. Il robot che avvita pezzi di metallo in catena di montaggio non ha nulla in comune con quello che, in sala operatoria, esegue incisioni con precisione infracellulare. Non solo non si assomigliano: neppure si salutano per strada.

Qui interviene l’ultimissima novità. I robot non hanno forma umana, d’accordo, ma neppure sono aggeggi da officina o da ospedale. Si tratta invece di “oggetti biologici autoreplicanti” grandi pochi millimetri e, sì, è comprensibile se leggendo questa informazione vi siete grattati la testa nel timore che un robot si sia infilato tra i capelli come una pulce. Nessun timore, però: al momento questi “oggetti biologici autoreplicanti” si trovano nei laboratori di poche università americane e sono il frutto di studi sui movimenti cellulari necessari alla riproduzione, ovvero, come diciamo noi ragazzi di strada, sulla “cinematica della riproduzione”.

Partendo da cellule di rana, gli scienziati hanno realizzato minuscoli ammassi multicellulari in grado di muoversi e di riprodursi più volte inglobando altro materiale biologico. Vista al microscopio, l’attività di questi organismi, chiamati “xenobot” dalla rana acquatica usata per crearli (xenopus laevis), ricorda il gioco del PacMan: una bocca semovente che inghiotte un pallino più piccolo.

Insomma:  l’idea di tutti i robot che abbiamo immaginato nel passato è scoppiata come una bolla di sapone, compresa quella che credevamo immortale di Jeeg Robot d’acciaio. Non resta che chiederci a cosa mai potranno servire degli organismi cellulari che si riproducono autonomamente senza raziocinio, un’attività nella quale, francamente, l’umanità eccelle da sempre.

Ce lo spiegano, con la pazienza riservata agli alunni più testoni, gli scienziati di cui sopra: poiché questi agglomerati sono stati composti ricorrendo a calcoli effettuati grazie ai più sofisticati software di intelligenza artificiale, in futuro potremo chiedere ai medesimi algoritmi di progettare “strumenti biologici” in grado di effettuare da soli operazioni specifiche, come eliminare certe presenze chimico-biologiche nocive e nel contempo aumentarne altre dall’effetto benefico, o comunque coerente con i nostri scopi. Due gli esempi che i giornalisti sono riusciti a strappare ai ricercatori: la lotta ai virus come il Covid-19 e la conservazione dell’ambiente. Alcuni robot biologici potrebbero dedicarsi all’eliminazione delle microplastiche dal mare e altri occuparsi di rigenerare i tessuti degli organi danneggiati dalle malattie.

Tutto molto bello, anche se pure i cazzottoni menati da Jeeg avevano il loro bel perché. I soliti guastafeste, però, hanno già sollevato obiezioni etiche, nella certezza che se qualcosa può essere utilizzato per fare del bene certamente potrà tornare utile anche per commettere il male, senza contare che il confine tra l’una e l’altra cosa non sempre è facile da definire.

Noi ignoranti di cui sopra avanziamo nel futuro nella sola certezza che ne vedremo delle belle. A pensarci, abbiamo anche un’altra certezza: se a Natale i nostri bambini dovessero chiederci per regalo un robot, evitiamo di impacchettare un ammasso multicellulare autoreplicante. A meno che non si sia pronti a farcelo tirare sulla testa.

 

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