QUEGLI ITALIANI A SCHIENA DRITTA ANCHE NEI LAGER

Al fronte si combatte. Si soffrono caldo, freddo, sete o fame, ma si combatte, appunto. “Lettere dal fronte” sono raccolte, per lo più della prima Guerra Mondiale, di soldati. Armati, in guerra.

Quello che ci consegnano i fratelli Paolo e Mario Schiani, Mario nostra preziosissima firma,  (“Il fucile dietro la schiena”, Dominioni editore), è qualcosa di diverso, intimo, ancor più toccante e se possibile tremendo delle lettere dal fronte: la corrispondenza con la famiglia del loro padre, Natale, durante gli anni in cui fu rinchiuso in un campo di concentramento. Dove, disarmati, non si ha nessuna possibilità di combattere, dove con la sbobba quotidiana le guardie feroci servono terrore, odio, violenza, umiliazioni.

Pensare che bastava una firma… Già, perché il bivio iniziale della vita di Natale e di tanti altri IMI (Internati Militari Italiani, marchiati come tali sulla pelle) era una scelta, era una decisione facile, a portata di mano: una semplicissima firma. Sarebbe bastato aderire al nazifascismo, stare dalla parte di Hitler, e le porte della libertà si sarebbero riaperte verso un sopportabile campo di lavoro (“Abbiamo a disposizione 4 locali abbastanza comodi…, lavoro 11 ore al giorno, ma non sono affatto stanco… avendo un’alta libertà”, scriverà l’ufficiale Gianni Genestroni a Natale) o addirittura sulla strada di casa. Ma i “Non vinti” (memoriale di Giuseppe De Toni) scelgono la dignità, la libertà del proprio spirito, dei propri ideali, accettando la prigionia con i suoi orrori e i suoi diritti calpestati, sbriciolati. Insanguinati. Sartre riassumeva questo allucinante bivio umano con uno scritto storico e profondo: “Mai stati liberi come sotto l’occupazione tedesca: piuttosto la morte che…”, “Nasce così la più forte delle repubbliche, senza istituzioni, senza esercito, senza Polizia: il primo significato di libertà (…) è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza”. (Dalla prefazione di Gianfranco Giudice, professore di filosofia e storia al liceo scientifico Giovio di Como).

L’anima e il sangue della famiglia che i fratelli Schiani ci consegnano sono intrisi di pudore e di domande. Il dubbio che non tutte le nefandezze, cui Natale ha assistito o che ha subito, siano state volutamente scritte: “E’ molto probabile che nostro padre ci abbia voluto risparmiare gli episodi più spaventosi”, ma anche nei racconti in vita “rendeva perfettamente l’idea della tragedia”. Persino i cani dei carcerieri – in uno dei passaggi più inquietanti del libro – sembravano aver metabolizzato la spietata crudeltà delle guardie, tanto che l’adunata serale scandita dal loro abbaiare feroce faceva esultare i prigionieri, al rientro nelle misere camerate: “Siamo salvi! Siamo Salvi!”, anche oggi siamo salvi.

Gli episodi della miseria umana di quegli anni, che poco sembrano aver segnato e lasciato in eredità a questo mondo miope, si succedono come i turbamenti: un oggetto difettoso costruito in officina può costare la fucilazione, l’incontro con altri prigionieri – i francesi in particolare – cancella la loro medesima condizione disperata, perché nei confronti degli italiani nutrono sentimenti di disprezzo. Li chiamano traditori e quel “Fucile dietro alla schiena” ogni nostro connazionale se lo sente puntato in ogni frangente di quei momenti interminabili, senza luce e senza speranza.

I fratelli Schiani hanno una grande speranza, “perché la memoria non basta mai”: raccontare, trasmettere la rettitudine di chi è cresciuto ed educato come figlio “nel raggio di un chiaro esempio di fermezza”. La chiave di lettura è ostinatamente questa, violenta e forse incomprensibile dalle successive generazioni: “Ogni tentativo di mostrarsi all’altezza in circostanze ordinarie fallisce in partenza, al confronto di chi seppe dire no a Hitler. Opporsi a un bullo tra i banchi di scuola, superare un conflitto di lavoro, tener duro in momenti di crisi possono sembrare imprese significative, ma poco hanno a che vedere con il coraggio dimostrato da chi affrontò l’agonia del lager”.

Forse non è vero. Forse quelle povere stille di coraggio sono invece le fondamenta di gesti più eclatanti: la goccia del mare… Come quella banconota che papà Natale ricevette dalla moglie Margherita quando partì militare e che lui le riconsegna quando torna dal lager, facendola arrabbiare. Lo sgrida: “Perché non l’hai usata?”, per un panino, per una medicina. Lui non risponde: “Chissà, forse avrà pensato che nella vita occorre preservare una piccola fonte di energia, una riserva di speranza, un poco di segreta fiducia”.

Da quel mondo disumano e brutale, in cui un cappotto o una coperta di lana potevano salvare la vita, arriva forte il messaggio, cari Mario e Paolo, che si può iniziare eccome con un “no”, ribellandosi al bullo in classe, al gesto razzista di qualcuno o denunciando il marito violento, perché di piccoli gesti di ribellione e di coraggio si sente sempre necessità, essendo ancora invasi da una moltitudine pavida di piccoli Hitler.

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