Pare incredibile che proprio nell’era della “comunicazione totale”, del “comunico, dunque esisto”, dell’esisti-solo-se-comunichi, l’attacco alla libertà di espressione sia così virulento, frontale, sfacciato. Anche da parte di istituzioni riconosciute quali pienamente democratiche.
Il Tribunale supremo spagnolo ha reso effettiva la “inabilitazione” per un anno e mezzo, con effetto immediato, del presidente della Generalitat de Catalunya, Quim Torra. Torra è il successore di Carles Puigdemont, il presidente catalano auto-esiliato dopo i fatti dell’ottobre 2017 (il referendum di autodeterminazione che il governo spagnolo cercò di impedire coi manganelli, e poi la “dichiarazione unilaterale d’indipendenza”) per sfuggire alla cattura da parte delle autorità spagnole, che da tre anni mantengono in galera il “vice” Junqueras (condannato a 13 anni per reato di “sedizione”) e vari altri politici catalani, perlopiù regolarmente eletti.
Torra è stato condannato a inabilitazione per “disobbedienza”. Rifiutò di togliere dalla facciata del palazzo del governo catalano, durante la campagna elettorale delle Politiche spagnole 2019, due striscioni: prima quello con la scritta “Libertà per i prigionieri politici e gli esiliati”, poi uno colla scritta “Libertà di espressione e autodeterminazione”. Gli ordini di ritiro erano emessi dalla Giunta elettorale centrale di Madrid, sulla base di denunce presentate da partiti conservatori come Pp (centrodestra) e considerando tali striscioni “propaganda elettorale”.
La condanna di Torra (che cedendo la presidenza al suo vice Aragonés ha fatto appello alla “rottura democratica” con la sbrindellata monarchia parlamentare spagnola) riaccende il conflitto istituzionale in una Spagna bloccata da una Costituzione 42enne e comatosa, dalle oscure trame di una monarchia ormai anacronistica, cui s’aggrappa una destra confinata all’opposizione e afflitta da paurosi conati di neo-franchismo; con un governo di centrosinistra che dipende proprio dai voti degli indipendentisti catalani, e con una magistratura iperconservatrice, che la destra rifiuta di rinnovare (il vertice del Csm spagnolo è “decaduto” da 2 anni ma la destra blocca ogni accordo sul rinnovo delle cariche).
Ma il caso-Catalunya è solo un esempio. La libertà d’espressione è in pericolo ovunque, e le emergenze sanitarie non devono impedirci di vederlo. La libertà di espressione è in pericolo a Hong Kong, o dove si uccidono i Khashoggi, dove si avvelenano i Navalny, ma anche dove si decide se estradare e ridare in pasto alla Cia i Julian Assange: a Londra, che era Unione Europea fin l’altroieri. E a Madrid, e in Catalunya, che è UE a tutti gli effetti. Che è anche casa nostra. E’ qui, ed è ora. E la perdita di libertà di espressione è un pericolo peggiore di qualunque virus.