CANTATE E RIDETE, MA NON USATE ANCHE LA TURCHIA PER FARE SHOW

Probabilmente, c’è una sola cosa peggiore dell’indifferenza, in materia di tragedie collettive: e questa è la cosiddetta “carità pelosa”. Di fronte al male che colpisce la gente, gli altri, appropriarsi del dolore altrui per fare bella figura è perfino più ripugnante del girarsi dall’altra parte.

Così, mescolare siparietti agrodolci, risate a comando e pettegolezzi assortiti a pipponi strappalacrime sulla catastrofe che si è abbattuta sulla Turchia sarebbe davvero mingere sconciamente fuori del vaso.

Eppure avverrà, se non è già avvenuto, su quel tristissimo palcoscenico sanremese, su cui, in questi giorni, si sta celebrando il più mencio tra tutti i mencissimi riti italici: quella parata di revenants e di maschere grottesche che è il Festival della canzone italiana. Ci saranno facce da funerale, parole di circostanza, voci fintamente meste, conti correnti dedicati: insomma, tutto il vieto repertorio dell’Italia solidale. E, poi, alè hop, si volta pagina e si ritorna, du tac au tac, alla dentiera di Gianni Morandi e ai lustrini di Amadeus.

D’altronde, la logica dello spettacolo è che deve continuare, sia pure in articulo mortis. Letteralmente. Ebbene, voi direte: cosa dovrebbero fare? Far finta di nulla, di fronte ad un dramma gigantesco? No, certo: ma basterebbero due parole. Per il resto, per le omelie funebri, ci sono i preti e le prefiche in gramaglie; mentre per qualche intervento, diciamo così, più sostanziale, ci sono canali appositi: apposite istituzioni.

Invece, all’italiana, questa catastrofe deve per forza diventare teatro: deve approdare ai tinelli nazionali sotto forma di voyeurismo del dolore, di celebrazione di un grottesco rituale collettivo. E tutti, pulcinellescamente, a pensare: meglio a te che a me, mannaggia! Senza contare, poi, il solito tam tam che, di bocca in bocca, ci rende edotti dei nomi dei luoghi più remoti e più martoriati: nomi pieni di ypsilon e di dieresi, che pronunciamo con compunta esattezza, salvo dimenticarceli in un battito di ciglia.

Perché la verità vera è che dei terremotati turchi, dei morti thailandesi o cambogiani, non ce ne frega assolutamente nulla: sono morti invisibili, inimmaginabili, collocati in questi luoghi senza tempo e immateriali che nemmeno sappiamo trovare esattamente sul mappamondo. Ma ci fa sentire meglio simulare cordoglio e, magari, versare un paio di euro con un sms.

Però, Sanremo, per la miseria, Sanremo continui ad occuparsi di effimere canzoncine: non si trasformi in un pensatoio o in un confessionale, in un’atroce esibizione del dolore. Dolore degli altri, lontano milioni di miglia da quel mondo felpato dai cachet milionari che scintilla nei televisori di mezza Italia.

Sono solo canzonette? Ebbene, che continuino a esserlo: si potrà disquisire della nobiltà delle esternazioni di una cantante o dell’opulenza del suo decolleté, della varietà dei suoi tatuaggi. Ma non è bello sentire, in bocca di questi pupazzi, tirate sulla solidarietà, sull’aiuto, sulle condoglianze. Sono pagati per farci divertire e questo facciano, meglio che possono: per le tragedie ci sono altri luoghi, altre parole, altre circostanze.

The show must go on: ma lo show non è tutto. Fuori dall’Ariston, c’è anche la vita.

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