CALA IL BUIO SUL BEL MONDO DI BELMONDO

Belmondo aveva altro da fare che morire. Alla fine ha dovuto accettare anche questa parte del suo film vissuto da sempre, come voleva sua madre: “Devi essere coraggioso come tuo padre. Così ho fatto e il coraggio mi ha permesso di arrivare fino a oggi”.

“Oggi”, in verità, si era interrotto nell’estate di vent’anni fa, quando un lampo improvviso aveva tramortito il suo corpo, l’ictus gli aveva tolto l’uso del braccio e della gamba destra, la parola era diventata debole ma il sorriso, quel sorriso, era rimasto intatto, uguale, sempre, da sempre.

Bebel, bambino bello, è morto mentre a Venezia il cinema racconta e celebra se stesso. Belmondo ha avuto quello che ha desiderato: viveur, quando questo termine aveva il significato docile, tombeur, quando non si doveva ricorrere per forza al sesso ma al fascino di un francese algerino, il cui padre, lo scultore Paolo, era piemontese con moglie siciliana, sposato a Madeleine Rainaud Richard, pittrice parigina e severa.

Bebel non si è fatto mancare nulla, Ursula e Laura, per dire nel senso di Andress e Antonelli, forse acchiappate da quel naso schiacciato dai pugni in palestra e sul ring. Belmondo tirava di boxe, saliva sulla pertica, andava a cavallo, sciava sulla neve e in acqua, non per esibire muscoli tartarugati ma per dimostrare a se stesso di sapere fare tutto e con quel tutto divertirsi e stupire.

Mai ha voluto una controfigura, era lui lo stuntman di se stesso, le sue “cascades” fanno parte della storia del cinema, correva a cento più all’ora in motocicletta, scappava tra i camini di Parigi, stava steso sui tetti dei treni del metro infilandosi nelle gallerie, bruciandosi un braccio, rompendosi la clavicola, un godimento al quale non voleva rinunciare.

Non era bello come il suo sodale Delon, che di carattere era ed è rimasto introverso e cupo, per una infanzia aspra, mentre quella di Jean Paul, con il padre e la madre artisti della creatività, era stata gaia e benestante.

Quando Parigi gli consegnò il Cesar, quattro anni fa, si raccolsero attori e attrici di ogni parte della Francia e del mondo del cinema, Clooney emozionato, in prima fila, applaudì insieme con gli altri “le magnifique”, per minuti cinque, Claudia Cardinale lo accarezzò, così Françoise Fabian e Dujardin e Charles Gérard. Belmondo, appoggiato al bastone, seguitò a sorridere, mille parole gli percorsero il volto, quando gli toccò parlare, sollecitato dalla Cardinale, si limitò a ringraziare la madre e il padre, lenta la sua voce da papero, ma commovente nel ricordo di un tempo meraviglioso, di pupe e di nouvelle vague.

Così pure a Venezia, l’anno prima per il Leone d’oro alla carriera, quella sera lui seduto, stanco, solo, sfinito ma non finito, sorridente ancora, sempre.

Quando Eugene Saccomano, grandissimo giornalista e voce vulcanica delle radio francesi, scrisse “Bandits à Marseille”, Delon comprò i diritti e ne venne fuori Borsalino, insieme con Belmondo. Fu il momento di dissidio fra i due idoli di Francia, Delon volle che il suo cognome risaltasse rispetto a quello di Jean Paul, Roch Siffredi su François Capella, che infatti muore, per mano di un sicario, e spira proprio tra le braccia di Roch.

Delon sta in una clinica a Nyon, sul lago svizzero. Ricordo una frase di quel film, Bebel ad Alain: ”Un giorno o l’altro ne resterà una solo di noi due: è meglio che me ne vada prima”.

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