Intendiamoci, non hanno inventato niente. Dietro di loro si staglia, lontana eppure altissima, la figura di Lisistrata, protagonista dell’omonima commedia di Aristofane. Fu lei a inventare lo sciopero delle donne, ultimamente replicato in Islanda con un ritardo di appena 2.400 anni, robetta in confronto agli accumuli di Trenord.
Hanno scioperato, le donne islandesi, per ragioni diverse da quelle immaginate da Aristofane: queste per protesta contro la guerra, quelle per la piena uguaglianza di genere. Entrambi validi motivi, validissimi anzi (e il primo, di questi tempi, non meno del secondo), eppure in qualche modo superflui. Lo sciopero delle donne, nell’antichità come oggi, è un’eventualità prima poetica che reale, un evento letterario ancora più che sociale. E come tale, di significato assoluto, superiore a qualunque rivendicazione contingente. Per questa ragione, lo sciopero proclamato nella regione dei ghiacci e del fuoco non suona meno rilevante – e senza tempo – di quello annunciato nell’antico Mediterraneo.
In comune, le donne islandesi e quelle ateniesi hanno il rovello dell’eterno confronto con l’universo maschile al quale appartiene, confessiamolo, la cifra della stupidità che grazie a loro (a noi), è diventata la chiave di lettura più efficace per interpretare la storia dell’uomo. Stupidi, gli uomini, non solo per aver inventato e fatto le guerre, in tutte le epoche e a tutte le latitudini, ma anche per la costante pratica della prevaricazione, della sbruffonaggine e di altri vizi e difetti che vanno dal narcisismo più vacuo (ben diverso dalla vanità femminile) fino alla sbadataggine, alle passeggiate in salotto con le scarpe sporche, ai cerchi con il fondo del bicchiere lasciati sul cassettone antico. In questo senso, dunque, le donne hanno sempre ragione di scioperare: non c’è bisogno che trovino un pretesto specifico. La stupidità nei secoli impunita della loro controparte genetica è motivo più che sufficiente. Sarà necessario, a questo proposito, citare a esempio le recenti disavventure domestiche del presidente del Consiglio?
Da Aristofane nella Grecia antica all’Islanda 2023 cambiano però i metodi impiegati per la dimostrazione: le donne ateniesi vollero negare agli uomini i loro favori sessuali, quelle di Reykjavik hanno scelto la più consueta strada dell’astensione dal lavoro. Segno, questo, che alla fine due millenni non sono passati invano: il sesso che, con la maternità, caratterizzava il ruolo privato e pubblico delle donne greche non è più la leva che può mettere un Paese di fronte alle sue responsabilità. E’ il lavoro, oggi, che conta, e smettendo di lavorare le islandesi hanno voluto sottolineare come esso non sia ancora uguale per tutti. Perfino lassù, nel Paese che più si è avvicinato all’uguaglianza di genere, la bilancia sociale non è del tutto in pari: a dispetto del fatto che l’Islanda sia da anni in testa alla classifica delle nazioni con ridotto “gap” tra donne e uomini, in alcuni settori professionali la differenza salariale tra i due sessi supera il 21 per cento. Tanto è bastato perché anche la premier Katrin Jakobsdottir scendesse in piazza al fianco delle scioperanti: quel venti per cento non è infatti una questione tanto politica o economica quanto culturale e come tale la riguarda da donna e non da capo del governo.
Il rapporto mondiale pubblicato dal World Economic Forum nel giugno 2023 vede l’Italia attestarsi al gradino 79 della predetta classifica, immediatamente preceduta da Georgia, Kenya e Uganda. Nella logica islandese, Giorgia Meloni dovrebbe essere in sciopero un giorno sì e l’altro pure. Invece, la sua elezione a premier è stata salutata come fosse in sé un grande passo avanti per la condizione femminile in Italia. Un passo avanti simbolico, si capisce. Perché a noi i simboli piacciono tanto. I fatti, meno.