di MARIO SCHIANI – Ciò che rende ancor più vomitevoli, se possibile, gli insulti rivolti alla giovane atleta paralimpica Beatrice Ion (“handicappata di m…”) e l’aggressione portata al padre che ha cercato di difenderla (beccandosi una testata e un pugno) è che al centro di tutta la faccenda pare ci sia un parcheggio. Un posto per disabili che Beatrice, 23 anni, costretta su una sedia a rotelle, ha tutto il diritto di usare e che pertanto neppure può essere considerato un privilegio, ma per qualcuno comunque fonte di rabbia e invidia al punto da convincerlo a mostrarci una sintesi particolarmente sgradevole della sua anima putrescente.
“Handicappata… vattene dall’Italia” (Beatrice e il padre sono di origine romena): insulti che vanno oltre il generico razzismo e l’ordinaria intolleranza. Sono coltellate verbali mirate a ferire a morte perché non si sopporta che qualcuno, per tutta la vita alle prese con il fardello di una disabilità, possa almeno trovare parcheggio un poco più agevolmente. Di fronte a questo inaudita distinzione, a questo aristocratico beneficio, viene a galla tutto il livore del poveretto, del frustrato, dell’ignorante che cerca affannosamente nel suo povero bagaglio verbale le armi per ferire distanziando, per colpire escludendo. Il parcheggio e l’auto rappresentano precisamente l’angusto limite nel quale certe persone ricoverano cervello, cuore e, non di rado, genitali. Guai a minacciarglielo, guai a esercitare su di esso un diritto sia pure ben motivato.
Siamo di fronte a un tipo di persone, purtroppo in aumento si direbbe, che non avendo qualità per distinguersi pretende che nessuno si distingua, che non avendo nulla su cui ragionare esige che nessuno ragioni, che non avendo niente da offrire impone che nessuno offra. Neppure guardano, questi individui, all’utopia-distopia della comunità marxista: quello da loro furiosamente reclamato è un livellamento meschino, che presume nelle qualità altrui soltanto privilegi, appoggi sociali, cospirazioni, iniquità. Tutta roba, beninteso, di cui costoro, potendo, godrebbero senza esitare un secondo e che, nel frattempo, proiettano sul prossimo perché serva da scusa al loro naufragio.
Beatrice ha poi l’ardire di essere una brava cestista, di aver vestito la maglia della nazionale e quindi di porsi a esempio, di attirare elogi e ammirazione. Tanto basta perché qualcuno, ritrovatosi per contrasto faccia a faccia con il poco o nulla della sua vita, abbia visto spalancarsi proprio lì, nel parcheggio, l’abisso del suo fallimento e abbia cercato di uscirne come fanno i disperati e gli ignavi: cerando di trascinarvi anche gli altri.
Pare che oggi Beatrice viva barricata in casa, ad Ardea, in provincia di Roma, perché la notizia degli insulti e dell’aggressione ha chiamato a raccolta i cialtroni da tastiera: su Facebook gli insulti si sono moltiplicati e le minacce pure. Intendiamoci: dalla Rete le è arrivata anche tanta, tantissima solidarietà ma questa, se consola, non risolve il problema della paura, non scioglie la tensione dell’assedio. Nessuno può ostentare completa indifferenza all’odio e questo spinge i vigliacchi a continuare nei loro sforzi.
Forse, continuando a isolare il problema in termini di “razzismo” e “intolleranza” ci sfugge il più generale malessere psicologico che affligge una parte della società. Una rabbia che la crisi economica non basa a spiegare né tantomeno a giustificare: è la frustrazione di chi non ce la fa a godere nemmeno del quarto d’ora di celebrità promesso da Andy Warhol e se ne torna a casa sconfitto. Peggio ancora: ignorato. E pensare che ci aveva messo un’ora per trovare parcheggio.