ARTEMIS NON VA, MA CI HA GIA’ INSEGNATO AD ABBASSARE LA CRESTA

Non so se è giusto parlare di karma, oppure tirare in ballo l’impalpabile gas che, in luogo dell’etere, elemento a lungo cercato e infine scartato, riempie senza ombra di dubbio, al di là della prova scientifica, ogni angolo dell’universo, ovvero quell’ironia cosmica che, dietro l’apparente imperturbabilità, accompagna con un sorriso di scherno tutte le attività umane.

Di certo, la falsa partenza – anzi, partenza proprio per niente: la rimanenza – della missione Artemis 1, destinata, una volta arrivata al numero 3, a riportare l’uomo (“e la donna”, come è stato già annunciato) sulla Luna, fa pensare che l’antico adagio sui conti e sull’oste, per quanto logoro, non sia ancora del tutto superato.

Problemi a un motore, dice la cronaca. “La sicurezza è sempre al primo posto”, scrive la Nasa su Twitter, nascondendo a malapena la delusione per il lancio abortito. Si dirà: nel campo dell’astronautica son cose che succedono. Non si può scagliare un razzo nello spazio e, se il lancio non è venuto bene, riportarlo indietro e riprovarci: bisogna avere invece l’umiltà necessaria per decidere di tornare in garage e dare una regolatina ai carburatori.

Ed è proprio l’umiltà con la quale hanno fatto i conti, nei minuti che hanno preceduto il lancio, i tecnici della Nasa e quelli dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea che in misura massiccia contribuisce, con una tutt’altro che trascurabile partecipazione italiana, al progetto Artemis. Umiltà riscoperta, ritrovata durante il countdown finale. Un’umiltà, piace pensare, contagiosa, che partendo dalla Nasa finisca per allargarsi a macchia d’olio su tutto il globo, pervaso, al momento, da un’arroganza senza pari nel corso della Storia.

E non si tratta, qui, di rievocare o di rimpiangere i tempi in cui gli uomini credevano di cogliere a ogni passo il volere divino, il furore del cielo innescato dalla loro superbia, la lezione impartita ai sacrileghi costruttori della torre di Babele. Non è affatto necessario, né in fondo è auspicabile, arrivare a tanto: basterebbe ricondurre l’uomo alla consapevolezza dei suoi limiti e ricordargli che lo spazio, al pari di altri luoghi solo in apparenza più accessibili, è pur sempre una zona di confine, un territorio (quasi) vergine, nel quale occorre addentrarsi con lo spirito, e la prudenza, dell’esploratore e non con la frivola eccitazione del passeggero low cost.

Sia pure innescata dalla Guerra fredda, dalla sfida tecnologica che evocava il confronto militare, la conquista dello spazio tentata dagli anni Cinquanta agli anni Settanta era ben consapevole dei rischi, della straordinaria sfida ai limiti della conoscenza scientifica che l’impresa imponeva sia agli astronauti sia agli ingegneri incaricati di costruire attorno a loro una caravella d’acciaio capace di trasportarli in quel misterioso Nuovo Mondo. Oggi pare che lo spazio sia, per così dire, dovuto: ci si affollano i satelliti che permettono ai telefonini di rimbalzarsi tra loro messaggini e scempiaggini varie, ci passano le astronavi costruite da miliardari annoiati (invece di discutere seriamente su come curare le ferite climatiche inferte alla Terra), si delira di traslochi su Marte, case vacanza su Giove e, per i soliti allupati, di weekend perduti nel peggiori night di Venere.

Ma ecco che la frontiera più insormontabile, lo spazio più sconosciuto, quello rappresentato dal nostro limite di esseri impastati sì d’intelligenza ma anche di sciocca ambizione, torna a manifestarsi: il motore della Artemis sputacchia, lascia giù una macchia d’olio, non parte. Tutto da rifare: ci si riprova – forse – venerdì. Proprio quando c’è più traffico: sarà un lancio da bollino nero.

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