In verità si era dato alla tivvù, come opinionista sulle emittenti lombarde, milanesi e bergamasche, riuscendo tuttavia a non confondersi nel trogolo di parole e insulti e, per questo proprio, facendo la figura del pirla, di quello che non capiva il giro del fumo, che teneva bassi i toni, che non sbraitava con gli altri per farsi notare più che intendere.
Fu, l’Umberto comasco, un calciatore essenziale, giocava in mezzo al campo, mediano e mezzala, di falcata lunga e di geometria nella visione, fingeva di conoscere l’inglese, masticando un paio di parole in un’epoca in cui al massimo ci si spingeva su yes e tea for two, per cui diventò amico e interprete, pensate un po’, di quel gigante a nome John e cognome Charles, insieme sussurravano e mormoravano, il gallese de Swansea scoppiava in risate da pub, Umberto stringeva le labbra a cul di gallina, era lui il vero principe di Galles.
Giocò 397 partite di football tra Juve e Atalanta, da lui scelta apposta preferendola alla Lazio e alla Sampdoria che gli vennero offerte da Umberto Agnelli, allora presidente del club. Vinse tre scudetti, tre Coppe Italia, la più importante con la Dea e per tre volte vestì l’azzurro Italia.
Nell’estate del Sessantuno prese dimora a Bergamo e qui continuò la sua esistenza garbata. Lo avevano dimenticato in molti e soltanto la morte, come accade con gli uomini normali, lo ha restituito alla cronaca.