A COSA SERVE IL LATINO, LA DOMANDA PIU’ CRETINA

Se il mondo non fosse impazzito, l’entusiasmo che a queste latitudini si registra di solito per l’apertura di un centro commerciale si manifesterebbe per altre notizie, come quella che riguarda il liceo classico di Bergamo: non solo, contro il dato nazionale, il Sarpi non ha visto calare le iscrizioni per l’anno prossimo, ma le ha persino aumentate, e in tutta la provincia il classico è, tra gli indirizzi liceali, quello che ha registrato il maggiore incremento di iscrizioni (più del 6 %) rispetto all’anno scorso.

Proprio nei giorni (11-12 aprile) in cui si celebrano le Giornate Mondiali del Latino, la notizia racconta di ragazzi che, in un’era appiattita sul materialismo e sul mito digitale, compiono la scelta più dirompente che si possa fare: ridare priorità all’immateriale, a ciò che non ‘serve’, ma soltanto nel senso che non asservisce l’uomo alla tecnica, agli algoritmi che decidono per te, alle tendenze del momento. E questo accade nella terra, tanto per ricordarlo, di Ambrogio da Calepio, autore del dizionario plurilingue più diffuso in Europa dal ’500 al ’700, o di Angelo Mai, che nel 1820 riscoprì un manoscritto di un’opera di Cicerone, il De republica, che si credeva perduta.

Sì, scegliere il classico oggi significa pensare che un Orazio possa ispirare un adolescente più di un influencer, che un Seneca promuova valori più nobili di un rapper. Ma soffre di strabismo chi, per guardare all’antico, si volta indietro: nella storia la classicità è stata sempre futuro, mai passato, dal Rinascimento, che riscopriva le pagine di un Lucrezio per superare la superstizione medievale, alla Rivoluzione francese, quando i sanculotti si cambiavano nome in Bruto o Gracco per abbattere il tiranno al grido liberté égalité, e anche i regimi novecenteschi che hanno manipolato tragicamente simboli antichi, dal fascio littorio alle Olimpiadi, lo hanno fatto con la velleità di forgiare l’“uomo nuovo”. Certo, ci sono stati momenti, dal latinorum di don Abbondio al classismo contestato da don Milani, in cui il latino è diventato strumento di discriminazione e sopraffazione, ma è stato un abuso: il latino è libertà, come hanno dimostrato il mancato attentatore di Hitler, Ulrich von Hassel, arrestato con le lettere di Seneca in mano, o i contestatari della guerra in Vietnam, che contro l’imperialismo americano scandivano lo slogan usato in Tacito dal britanno Calgaco contro i Romani, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant («Fanno il deserto e lo chiamano pace»).

Oggi, da Oltreoceano, ci vogliono far credere che latino e greco siano strumento propagandistico dell’eurocentrismo maschilista e colonialista, ma è rozza ideologia: chi si cimenta quotidianamente con lingue senza articoli o con il duale, con il neutro o con l’aoristo, sperimenta la diversità, si abitua a pensare alternative, a realizzare che il nostro non è l’unico mondo possibile, nel bene e nel male, e che ogni progresso non è irreversibile, ma richiede di rinnovarsi ogni giorno con coscienza critica e rifiuto della superficialità. Quanto più il mondo diventa ipertecnologico, artificiale, omologato, tanto più può fare la differenza l’esercizio di lingue e culture che, attraverso il passaggio dalla teoria grammaticale alla prassi testuale, dal generale al particolare (e ritorno), abituano alla complessità e alle sfumature, alla logica e al dubbio, alla necessità di interpretare e cercare soluzioni.

Chi oggi si iscrive al liceo classico non lo fa con la snobistica presunzione di essere migliore, ma con il desiderio di diventarlo, grazie alla via che in ogni tempo ha più contribuito all’elevazione della società: il sapere umanistico, rivolto all’uomo in quanto tale, senza inutili etichette di genere, di appartenenza, di provenienza. Mai dimenticando che la risposta più intelligente sull’utilità delle lingue antiche l’ha data un italianista, Guido Baldi: a cosa serve il latino? A non fare domande idiote come questa.

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