DIVORATI DAL VAR

Il Var non va oliato, come dice Rocchi detto anche Bontà Sua. Ma non va nemmeno odiato. Il Var va deturpato, mutilato, ubriacato e poi accecato, in una sola parola limitato. Come fece lo scaltro Ulisse con quell’idiota cannibale di Polifemo, una volta bevuto, gli va conficcata una bella trave bollente nell’occhio. Non va eliminato del tutto, no, ma va dotato di un handicap pesante. Il Var, così com’è, è un insaziabile stronzo, una ramazza ottusa e pedante che si posa su ogni microscopico granello di polvere. Risultato? Il funerale del calcio. Sì, triste, una rogna, ma vuoi mettere, si va puliti e netti alla meta. Nemmeno per sogno. Anzi, più sudici di prima.

Il Var, così com’è, è la negazione della vita stessa. Qualunque atto della vita, in qualunque area di rigore, se sottoposto a lente d’ingrandimento è passibile di un calcio di rigore. Le galere scoppierebbero di carne umana difettosa se ci fosse una super moviola a spulciare ogni istante delle nostre azioni. Il Var, così com’è, è un disperante casino. Vorrebbe essere giustizia assoluta, sopra le parti ma se, sopra le parti, ad azionare il Ciclope Meccanico, c’è l’ennesimo omarino, diventa giustizia a fase alterna, ovvero l’ingiustizia suprema.

La moviola in campo? Un campo minato. Insieme ai panni sporchi, le “maialate” pesanti, come le chiamava quello stilnovista di Giampaolo, si sta gettando anche il bambino, ovvero che i novanta minuti di pallone siano una sfida che somigli alla vita, un racconto bello, fluido e imperfetto sì, ma non la balbuziente prosa continuamente spezzata dagli stessi omarini che non sanno più che pesci prendere, in un mare che un po’ li respinge e un po’ li vorrebbe ancora accogliere.

Prima, l’omarino in carne, ossa e cornea, in braghette e fischio d’ordinanza, era suscettibile di pescare granchi, imputabile qua e là di mala e di maiala fede, un capro espiatorio perfetto. Tutti a turno s’incazzavano con lui come iene, lo processavano, ma tutto finiva poi nel grande biscardiano mare diluente dell’”errare umano è”. Oggi, l’omarino di un tempo è una zero gestito e comunque bastonato, come le marionette al Pincio di Roma. Il problema è che a gestirlo non sono emissari di Dio, ma per l’appunto altri omarini, gli stessi che, spesso, facevano disastri in campo. Le stesse umane e croniche miserie, la stessa voglia di strafare, di scimmiottare Dio, ben lungi dall’esserlo.

Pescare, a intermittenza, il fuorigioco microbico, il tocco della mano morta o viva che galleggia nello spazio, il lieve impatto accidentale, in uno sport che si nutre di scontri fisici (vedi, per restare all’ultima puntata, il rigorino di Dumfries o quello assegnato alla Viola contro il Cagliari) è un bestiale errore di non concetto, spacciato per giustizia esemplare.  Perché il Concetto, nello statuto del Var, recita chiaro: vanno corretti soltanto “gli errori chiari”. La domanda non è se la decisione dell’arbitro “è giusta?”, ma se “è chiaramente sbagliata”. Traduzione. Io Var vado a pungolare la coscienza dell’arbitro solo se sono al cospetto di un maledettissimo ed evidentissimo scandalo, tale da far crollare le colonne del tempio e arrossire il mondo intero. Se fermo tutto e cambio il corso delle cose per il centimetro di spalla o mezzo gomito significa che siamo finiti nelle grinfie di un meccanismo paranoico e incontrollabile.

E dunque? Cosa farebbe lo scaltro Odisseo oggi, nei confronti del Ciclope ottuso? Tornare indietro non si può, non si deve. Bisogna inventare il futuro. Dobbiamo inventarci equilibrati. Attenuare lo scandalo dell’imperfezione, ma senza la pretesa di cancellarla del tutto. La soluzione? Solo una. Rinunciare a un’impossibile oggettività nel nome della impossibile giustizia esemplare.

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