Così, eccolo di nuovo a casa, agli arresti domiciliari. Certo non è il primo caso di giustizia molto umana, molto misericordiosa, che si preoccupa della dignità e della salute anche del peggiore assassino. Ma in questo caso c’è una famiglia, la famiglia della sua vittima, che proprio non ce la fa a comprendere e a condividere. Rapidissimo riassunto: lei era la fidanzata di Dimitri, si chiamava Erika Preti. Era l’11 giugno 2017, a San Teodoro, in Sardegna. Stavano preparando i panini prima di andare in spiaggia. Lei lo aveva rimproverato perché stava facendo troppe briciole. E lui le aveva inflitto 57 coltellate. Era una delle prime vacanze da fidanzati. L’ultima.
Si torna ai soliti discorsi, per i quali dovremmo sentirci anche un po’ in colpa, anche un po’ pessimi. Diciamo pure troppo intransigenti e giustizialisti. L’ergastolo non restituisce Erika alla sua famiglia, ma almeno riesce a placare parzialmente il dolore e la sete insaziabile di giustizia. Eppure: com’è possibile che un assassino conclamato torni a casa dopo 6 anni?
Le risposte sono note. Raffinatissime. Dimitri ha problemi di salute, vuoi lasciarlo marcire in carcere senza tendergli la mano? E poi via con tutte le argomentazioni del caso: la prima, la più elevata, sempre quella, “una società civile deve dimostrarsi migliore dell’assassino”. Zitti e muti, per non uscirne da forcaioli.
Il problema, anche stavolta, è spiegarlo alla famiglia di Erika. Dopo 6 anni, si ritrovano libero il feroce killer della loro ragazza. Il papà riesce solo a dire la cosa più spontanea ed elementare: “Per noi non è più vita, ogni giorno andiamo a piangere Erika sulla sua tomba. E lui intanto è già tornato a casa. E’ giustizia questa?”.
Bisognerebbe dire ancora una volta, sentendoci tutti più nobili ed evoluti, “nessuno tocchi Caino”. Però prima o poi dovremmo anche prenderci la briga di alzare lo sguardo verso chi è condannato – senza colpa -all’ergastolo dello strazio. Prima o poi bisognerebbe pensare anche ad Abele.