20 ANNI DI DAGO-LIBERTA’

di GIORGIO GANDOLA – «Saranno anche onesti questi politici, ma poi ti ritrovi un’Azzolina. Ho nostalgia di Fanfani». Si sorride, si stappa, si annuisce e ci si domanda perché nessun giornale ci fa un editoriale.

Buon compleanno a Dagospia, sito che veleggia sul web a 350.000 clic al giorno e da 20 anni è la vera rassegna stampa dell’editoria italiana, la più impertinente, scostumata, fuori di testa. E con la scusa del berretto a sonagli di pirandelliana memoria, fra un sederone e un ammicco per agevolare l’italico voyeurismo, si permette di dire la verità sul mondo politico, economico, scostumato e cafone che ci pervade.

Editorialisti da Pulitzer (spesso mancato) ci vanno laterali, lisciano il pelo, scambiano buffetti al potere per feroci invettive. È sufficiente che una regista semisconosciuta sia moglie di John Elkann per diventare Katryn Bigelow. Basta che Urbano Cairo diventi editore tentacolare perché il suo Torino giochi da Champions anche quando perde 4-0.

Invece Roberto D’Agostino spenna proprio loro, denuda i re e va dritto in porta, un tiro un gol. Allora togliamo dal frigo le bollicine e dal cassetto i soprannomi. Lo vogliamo celebrare così perché da lì, dalla brevità di un aforisma, nasce l’articolo di fondo che nessun altro riesce a scrivere.

Oggi è facile vedere Matteo Salvini dietro il Ruspa (quando si faceva stirare le camicie era Isoardo), Giuseppe Conte dietro Camaleconte, Nicola Zingaretti dietro Zinga l’Odontotecnico (è il suo titolo di studio). Di Maio non può che essere Giggino il Bibitaro per la propensione grillina ad avvalersi della competenza del disoccupato. Più difficile inventare il folgorante Bella Napoli per l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, uno dei mille soprannomi che denudano il potere, che fanno partire i cachinni del popolino divertito per lo spettacolo cafonal di chi, quei nomignoli, s’è meritato.

Un soprannome di Dagospia non si vince, si commina come una sanzione o come un premio Nobel per la Letteratura; un soprannome di Dagospia diventa più vero del nome e sostituisce facilmente un corsivo di cinquanta righe di quelli che finiscono in fondo alle prime pagine dei giornaloni da messa cantata. Perché Pierfurby vale più del curriculum politico sinusoidale di Pierferdinando Casini (una vita a passare da destra a sinistra con la disinvoltura di Ivan Perisic ai mondiali di calcio); perché la Duciona rappresenta la verve popular di Alessandra Mussolini meglio di una foto in primo piano; perché Maria la Sanguinaria ci dice della competitività di Maria De Filippi sul set più di un elenco di programmi rivali massacrati con l’audience.

Così, nel ventesimo anno di vita del sito web più cool della politica mediatica italiana, vale la pena celebrare il successo come a una festa di paese, con salamella, vino rosso e un soprannome ad hoc. Uno al minuto, uno per ogni vip felice di essere preso a schiaffi. Si parte da lontano. Ricordate Italo Bocchino, il politico che seppellì Alleanza Nazionale con le sue rivelazioni? Era il Becchino. E Gianfranco Fini, la più illustre vittima, aveva nomignoli double-face: Gianmenefrego prima dello scontro con Silvio Berlusconi e Gianmenepento dopo. Con i Tullianos (come i Sopranos) sullo sfondo della locandina.

Per identificare il Cavaliere, D’Agostino parte con Quarzo potere («Era bello e lucido») e arriva a Banana di Hardcore nel periodo delle cene eleganti. Siamo davanti a perle di sublime irriverenza come Walter Ego, che toccava nel vivo l’autoreferenzialità cinematografica di Walter Veltroni, ma anche la sua subalternità politica a chiunque altro. Il nomignolo a cui D’Agostino è più affezionato è il Mortadella riferito a Romano Prodi, assurto a vette himalaiane di popolarità. Ma uno dei più feroci è Berty-Nights, undici lettere con trattino in mezzo che hanno distrutto Fausto Bertinotti, comunista da night club, l’unico incapace di trattenersi. Infatti si arrabbiò moltissimo. E allora il perfido Dago battezzò anche la moglie: Sora Lella.

I soprannomi sono la rivincita del popolo. Il primo, D’Agostino lo sentì in una notte da osteria fra cinematografari di Cinecittà. Era dedicato a Sergio Leone: Francis Ford Caccola. Vai col tango. Ecco Daniela Santadechè ruggente con la collezione di tacchi 12; Simona Ventura la Mona con i naufraghi dell’isola dei famosi (Morti di fama); la Gruber, Lillibotox per il viso superlevigato; Bruno Vespa che diventa Sultano del Bruneo; Emilio Fedele, basta la parola; Ferruccio De Bortoli ribattezzato Flebuccio per l’aria british e il colorito pallido, da redazione. E poi Alfonso Signorini (Alfonsina la pazza), Michele Santoro (Sant’Euro per i cachet), Roberto Benigni (Johnny Stracchino); Adriano Celentano (Il Molle agiato), Zucchero (Dietor) fino ad Antonella Clerici (la Forza dell’intestino).

C’è qualcosa di breriano in queste pennellate, anche se la crassa verve trasteverina trionfa a confronto con il nebbioso romanticismo del vate padano del pallone. Rombo di Tuono (Gigi Riva), l’Abatino (Gianni Rivera), Gazzosino Oriali, Schizzo Tardelli, il Bell’Antonio Cabrini, Pantegana Klinsmann avevano una loro raffinatezza letteraria che il vocabolario di D’Agostino non contempla perché ritenuta del tutto fuori luogo nel mondo fangoso della politica e dell’economia.

Il primo scoop di Dagospia, sito inventato in una sera romana davanti a una pizza Margherita su consiglio di Barbara Palombelli (il cui marito Francesco Rutelli sarà per sempre Franciasco, da slang pariolino), è nel mito. Il protagonista fu Franco Tatò, allora amministratore delegato dell’Enel, in corsa per acquistare Telemontecarlo e regalare la poltrona da direttore di rete alla giovane compagna. Titolo del servizio di Dago: «Sonia Raule, dal materasso alla rete».

Avanti tutta con un’intera classe dirigente fotografata di spalle o di nascosto mentre si mette le dita nel naso. I big della finanza non hanno scampo. Luca di Montezemolo diventa Luchino di Monteparioli, poi Scarpe Diem, infine Monteprezzemolo. Vittorio Colao, mago delle ristrutturazioni vincenti tranne quella sulla Fase 2, non può che chiamarsi Colao Meravigliao. Diego Della Valle è lo Scarparo a pallini. E Sergio Marchionne, capace di convincere anche Barack Obama della superiore tecnologia della Punto diesel, fu gratificato della medaglia Marpionne.

Manca qualcuno? «Quelli che non contano», risponde D’Agostino, avvolto nella sua raffinatezza alternativa, circondato da dischi in vinile, scaffali di libri e quadri d’arte contemporanea alle pareti, come da memorabile descrizione abitativa fatta da Giampiero Mughini.

Dago se ne andò 20 anni fa dall’Espresso, emarginato perché aveva osato dire che «l’Avvocato Agnelli portava sfiga». Oggi è un maître à penser.

Lunga vita a Dagospia, ai suoi nomignoli e a un ragazzo di 72 anni mai sfiorato dalle cupezze infernali della destra (cit. da Louis Ferdinand Céline) né dal cretinismo planetario della sinistra (cit. da Mario Vargas Llosa). Quindi più capace di molti altri di guardare l’orizzonte e distinguere le nuvole in viaggio dalle vele dei conquistadores. Del resto, mentre l’Italia lo osannava, fu il primo a bocciare Mario Monti per le sue politiche recessive; lo chiamò Rigor Montis. Ci siamo andati vicino.

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