“SQUID GAME”, QUANTO VALE LA VERITA’?

È il gioco virtuale più amato dai ragazzini, con i joystick o sugli smartphone, ma anche il prediletto da molti adulti potenti che hanno in mano la natura e le nazioni: uccidere. È il nostro tema quotidiano occulto: fin dove ci si può spingere per denaro? Siamo disposti a eliminare il prossimo per sopravvivere noi stessi? La morte può diventare un divertimento?

C’è tutto questo in “Squid game”, la serie tv Netflix erede della “Casa di carta” per battage e gradimento (1a in Italia), della consorella spagnola ricalca il soggetto di una folla radunata in un solo posto, sospesa tra la salvezza e la fine. Con il filo conduttore dei soldi. Va detto però che “Squid game” fu scritto molto prima, nel 2008, ma ha impiegato 10 anni a trovare i fondi per la produzione.

Siamo in Corea del Sud. Un gruppo di facoltosi miliardari, mascherati e di lingua inglese, si diverte a radunare centinaia di disperati (sommersi dai debiti e senza prospettive esistenziali migliori) in un gigantesco labirinto su un’isola misteriosa dove, cimentandosi in giochi infantili riprodotti con sofisticate rielaborazioni architettoniche, dovranno arrivare in finale. Gli eliminati vengono brutalmente ammazzati di volta in volta: uno solo, o una sola, vincerà, avendo salva la vita e portandosi via 46 miliardi di won (circa 33 milioni di euro). I ricchi, occulti uomini d’affari (“vip”) scommettono su di loro. Sulle loro vite. Le famiglie di tutte le altre vittime avranno un risarcimento in forma anonima. Nemmeno troppo in sottofondo, un fiorente traffico di organi cui è dedita la misteriosa, assai facoltosa banda. Non c’è coercizione nell’assoldare i malcapitati, attratti per la strada da imbonitori dell’organizzazione che concedono loro una possibilità, una via di uscita dalla loro miserabile esistenza. Attraverso, tanto per cambiare, un banale gioco di strada.

Dopo che, da ragazzino, mi portarono a vedere “Un uomo chiamato cavallo” pensando si trattasse semplicemente di uno dei tanti film western che amavo, non ho più smesso di interrogarmi fino a dove la crudeltà dell’uomo su un altro uomo si potesse spingere nella finzione e se mai, e se quanto, avrebbe potuto superare la realtà. Studiando storia e continuando ad andare al cinema assiduamente, la scoperta di quel ragazzino è stata che non ci sono limiti. Non ce ne sono mai stati. Il fine giustifica i mezzi e il fine è immancabilmente il denaro. Le conferme si ripetono ovunque nella vita reale come nelle serie tv.

“Squid game” offre qualche discutibile risposta alle sue stesse domande: quanto vale la verità? Quanto costa mentire? Fino a che punto ci si può fidare, e di chi, quando di mezzo ci sono i soldi e la propria sopravvivenza? Quell’uomo chiamato cavallo giocava da solo, appeso dagli indiani ad una corda con le zampe di un animale conficcate nel petto. Sottoposto a fatiche immani per salvarsi, senza più distinguere tra uomo e animale perché il confine tra uomo e animale sta nella crudeltà, nella sopportazione, nell’assenza di sensi di colpa che invece nella serie di “Netflix” affiorano quasi a comando mano a mano che su quell’isola si consuma la strage. Non nei carnefici, spietati, asettici, ignoti.

Cruda, violenta, sanguinaria, sempre un passo oltre il limite, “Squid game” rivolta il peggio dell’anima con aneliti di sommersa umanità, vulnerabile e condizionata. Fu concepita dal regista Hwang Dong-hyuk sulla base delle sue personali difficoltà giovanili, oltre che ispirata alle inique disparità socio-economiche vigenti in Corea del Sud. Tra impianto (promozione a pieni voti per sceneggiatura, regia, fotografia, scenografia e recitazione) e contenuti (pullula di retorica e di prospettiva orientale, a noi qualche volta difficilmente comprensibile), da spettatore e non certo da critico quale non sono, la consiglio a chi non si impressiona e ama il “cinema” – sebbene 9 episodi da un’ora scarsa ciascuno siano un filo eccessivi -, non invece a chi certe risposte se le cerca da solo, conoscendo perfettamente le domande che la quotidianità ci ripete ossessivamente. Lo svago è un’altra cosa, godetevelo semmai guardando un buon film.

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