CATTIVI PENSIERI SUL RAGAZZINO AUTISTICO DISPERATO A SCUOLA

La lettura in cronaca di certi fatti è disturbante, molesta quasi, e subito induce a esprimere condanna e a evocare pena e provvedimenti.

Quello che è accaduto a Castellammare di Stabia negli scorsi giorni non fa eccezione: Francesco ha 14 anni, è autistico e ha un ritardo mentale. Il 30 settembre la madre riceve telefonate dalla scuola che le comunicano che è accaduto qualcosa, lei accorre e trova Francesco senza vestiti, sporco dei propri escrementi sparsi anche per la palestra, dove si trova.

Indignazione da parte della madre, oltre a qualcosa che non sono in grado di definire perché solo una madre in quella condizione può dire e provare a spiegare. Lei è sbigottita, accusa la scuola e presenta una denuncia. Dice: «Non c’è personale qualificato e per questo sono andata a protestare in Comune», e ancora, «il disturbo di Francesco non incide sul suo senso di pulizia: lui sa come farsi capire quando deve andare in bagno. Questo significa che nostro figlio è stato lasciato solo, anche per molto tempo, come un cavallo in una stalla».

La scuola si difende, dice che l’assistenza era adeguata, ma «ha avuto una crisi ed era difficile calmarlo. Ha poi provato a lanciare i propri bisogni verso i compagni. La palestra viene usata perché lui ha bisogno di spazi ampi: più volte ha provato a sradicare oggetti dalle pareti delle aule».

Questo il fatto. Viene così umanamente facile essere dalla parte di questa madre, di questo ragazzo, e così credo sia giusto, ma una lettura a più ampio respiro innesca pensieri di altrettanto ampio respiro su scuola e disabilità.

So bene quanto sia difficile affrontare in modo umano e allo stesso tempo adeguato ed efficace certe circostanze problematiche nell’autismo, e io non so dire se davvero la scuola, quella scuola, abbia fatto tutto il possibile, nei modi possibili. So per certo che quando la madre pone l’attenzione sulla mancanza di personale qualificato, consapevole o meno punta il dito verso tutta la scuola, non solo quella di suo figlio.

So che l’assistenza e il sostegno ai disabili nella scuola continuano a essere punti dolenti, le cattedre di sostegno continuano a essere sovente un ripiego in attesa del passaggio alle cattedre comuni e la buona volontà è altrettanto sovente l’unica arma a disposizione di questa legione di insegnanti a scadenza. Può bastare?

Ogni anno, e il 2021 non fa eccezione, decine, centinaia, a volte migliaia di insegnanti passano dal sostegno alla cattedra comune, con conseguenza immediata di altrettante cattedre vuote occupate da insegnanti non specializzati.

Sottolinea la FISH, Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, il sostegno “deve essere una chiara scelta professionale fin dagli studi universitari e non una scelta opportunistica”. Chiaro e limpido.

Si può essere fortunati, talvolta, pescando la persona coscienziosa e comunque preparata, si può essere molto sfortunati, più spesso, ma è inaccettabile che la vita dei nostri connazionali disabili debba essere affidata alla sorte: quella cattiva dovrebbe aver già esaurito le proprie frecce nei loro confronti, già alla nascita, ma per incuria, negligenza e menefreghismo trova comunque modo di infierire a oltranza.

Senza contare che, come per gli insegnanti delle cattedre comuni, non esistono vere procedure di controllo e valutazione delle capacità educative e di insegnamento, né prima di accedere alle cattedre, né tanto meno una volta compiuto il salto a piedi pari nella scuola. Controllo e valutazione che sappiano restituire la reale adeguatezza a svolgere quel difficilissimo e nobile compito, nel quale saper leggere le situazioni, osservare, aspettare, imparare dalla persona, conoscere e imparare dal contesto, familiare innanzitutto, non sono azioni meno importanti che saper trasmettere conoscenze e abilità, anzi, essenziali proprio per quel fine.

Sapere e avere studiato non bastano. Un insegnante formato e istruito rimane in prima istanza e innanzitutto un insegnante formato e istruito, non già un bravo insegnante.

Servono persone che abbiano la voglia e la capacità di provare a cogliere la prospettiva della persona disabile, lo stare bene dal suo punto di vista, il benessere senza il quale non c’è possibilità di apprendimento e senza il quale la presa in cura è sterile ed egoistica. E uno dei punti cruciali sta proprio nel fatto che la prospettiva del normodotato difficilmente si sposta in modo da assumere in modo scomodo quella della persona della quale si prende cura. Vuole integrare, includere, a tutti i costi, ma con quale volontà, per non parlare di livello e qualità, di immedesimazione?

Negli anni, sempre più si sente parlare di integrazione e inclusione, ma sono spesso astrazioni che gratificano noi e la nostra coscienza, delle istituzioni in primo luogo. Servono civiltà e conoscenza, studio e fatica.

E umanità, se possibile, sempre che non si esaurisca nelle inaugurazioni, nei tagli dei nastri e nelle felicitazioni per la cattedra conquistata.

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