SE NEMMENO IL CATACLISMA SCOMPONE L’INAMOVIBILE GRAVINA

Non è successo niente. Abbiamo aspettato qualche giorno sulla riva del fiume, ma sono passati soltanto yacht di oligarchi russi in fuga. Dopo la più devastante disfatta calcistica della nostra Storia, si riparte dagli stessi volti che l’hanno realizzata e l’hanno certificata, Gabriele Gravina (presidente federale) e Roberto Mancini (commissario tecnico). In Italia l’istituto delle dimissioni “lavacro” non è mai stato di moda e l’eliminazione di Palermo conferma la tendenza: tutti al loro posto verso un futuro non si sa se radioso. Con riabilitazione immediata, almeno nel funereo contegno, per la coppia Tavecchio-Ventura che nel novembre 2017 dopo la Svezia aveva tolto il disturbo.

Oggi l’immobilismo è accompagnato da stupore allucinato perché per un anno abbondante, vedendoli in Tv e ascoltandone i proclami, nessuno starà a sentire i due capi aggrappati rispettivamente a poltrona e panchina. Sessanta milioni di italiani, neonati compresi, guarderanno i loro volti e immediatamente avranno davanti agli occhi il tiro di Aleksandar (Magno) Trajkowski al 92’ dello spareggio mondiale a bucare Donnarumma. Una Macedonia immangiabile.

E se Mancini oggi sembra insostituibile per mancanza di alternative (Cannavaro ha allenato tutt’al più qualche cinese, Lippi può ricordare il glorioso passato con Sacchi davanti a un succo di frutta, De Zerbi all’estero equivale a uno 0-0), il popolo si domanda: ma nel Paese dove non si dimette mai nessuno, almeno Gravina non poteva fare eccezione?

Avvocato di Castellaneta (Taranto), il presidente federale in questi quattro anni non aveva fatto male. Per onestà di giudizio, se oggi lo accusiamo di aver perso il mondiale, dobbiamo ricordare che otto mesi fa ha vinto pure lui l’Europeo. Misurato e per nulla incline alla polemica, ha tentato di tenere a galla la terza azienda del Paese (3,4 miliardi di debiti) promettendo una rivoluzione mai partita. Per due motivi: il pollaio dei presidenti di Serie A e un certo coronavirus di passaggio per il pianeta.

I punti cardine del rinnovamento dovevano essere il campionato maggiore a 18 squadre, la valorizzazione dei vivai, un centro federale in grado di selezionare giovani vincenti (un po’ come Clairefontaine per la Francia); quello che oggi si chiede a gran voce per uscire dal pantano. Missione mai compiuta anche perché la litigiosità da assemblea condominiale dei club dentro la Lega di Serie A paralizza da anni ogni innovazione. Lui l’ha commissariata, ma questo non impedisce a Lotito e Cairo, Marotta e Agnelli di tirarsi i capelli quando guarda altrove.

La storia di Gravina è particolare. Ha guidato aziende, è il classico manager da scrivania. Ottimo mediatore e collante di consensi, sennò non sarebbe diventato presidente con il 97% dei voti. È entrato nelle stanze del calcio che conta non per avere vinto uno scudetto, non per aver battuto un record o aver moltiplicato i bilanci dei club con un’idea, ma per aver portato il Castel di Sangro (5500 abitanti) in Serie B 26 anni fa. Ancora oggi è il più piccolo centro italiano ad aver raggiunto quel traguardo. Fra i suoi successi da capo delegazione c’è anche l’oro europeo Under 21 nel 2004, che fu il preludio del trionfo mondiale a Berlino due anni dopo.

Il calcio italiano oggi sotto shock gli è grato soprattutto per la gestione nel periodo della pandemia. Nell’aprile di due anni fa tutti avrebbero voluto chiudere baracca. Il ministro Vincenzo Spadafora era per il blocco speculativo (un problema in meno per il governo). Metà dei presidenti di Serie A guidati da Urbano Cairo erano per il blocco cautelativo (niente partite, niente contagi, niente grane). Il numero uno del Coni, Giovanni Malagò, era per il blocco cumulativo (aveva già blindato il resto dello Sport, il calcio non doveva costituire un’eccezione). Gli opinionisti erano per il blocco rispettoso (che fate, giocate davanti ai morti?). Oggi il pallone sgonfio ha un 3,4 miliardi di debiti e se non fosse stato per Gravina, che insistette per giocare senza spettatori, ne avrebbe di più.

Allora il presidente andava in battaglia al grido: “Non posso essere io a uccidere il calcio italiano”. Meglio non ripensarci dopo l’orrida Macedonia, mentre lui è così saldo sulla tolda da proporci la conferma di Mancini fino al 2026. Hanno il cerino acceso, ma restano entrambi come domatori nel circo carbonizzato. C’è da capire se sia il più generoso dei gesti perdonisti o la più perfida delle condanne.

 

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