SE DI COGNOME FAI BABBO E TI CHIAMANO NATALE

Nel periodo estivo, quando si ha più tempo a disposizione e il gran caldo fa preferire rimanere in casa, sono solito mettere a posto le tante carte di lavoro che si accumulano nei mesi o perfino negli anni. Tendo a conservare tutto ma in questo modo carte e documenti si sprecano. Così in un cassetto quasi sempre chiuso ho ritrovato le agendine in cui scrivevo brevi appunti delle sedute con i miei pazienti. Si tratta di una mia buona abitudine del passato via via persa, un po’ per il minor tempo a disposizione, un po’ per aver erroneamente aumentato la fiducia nella mia memoria.

Sfogliando i taccuini dei miei primi anni di lavoro, è emersa la storia di un paziente completamente dimenticato, probabilmente perché avevamo avuto pochissime sedute, solo tre o quattro.

Si trattava di un ragazzo, all’epoca quasi ventenne, molto arrabbiato con il proprio padre e deriso dai suoi amici (oggi diremmo bullizzato), proprio a causa delle scelte paterne. Lui preferì interrompere subito le nostre sedute: evidentemente non ne percepiva alcun giovamento o forse non era disposto a tollerare l’attesa di un qualche risultato. Oppure, ma questa è un’ipotesi più raffinata venutami in mente solo ora, trasferì su di me i sentimenti di rabbia che provava verso il padre. In situazioni simili, il terapeuta può rappresentare, dal punto di vista simbolico, una figura paterna più autorevole e contenitiva, ricercato proprio per supplire alle mancanze affettive. Laddove ciò avviene, il percorso clinico evolve in modo utile. Tuttavia, talvolta il sentimento più profondo di critica e di accusa verso il padre prevale e si propaga alle altre persone di riferimento generazionale. Così, la psicoterapia serve in modo inconsapevole a fornire una conferma di quanto sia meglio non fidarsi degli adulti. A sostegno di quest’ipotesi, ricordo che anche con gli insegnanti, nonostante fosse un ragazzo brillante, non aveva un rapporto tanto buono.

Tuttavia, nel breve tempo in cui ci siamo incontrati, una cosa utile riuscii a farla: gli parlai di un mio nipote, figlio di un cugino, strambo come il padre del mio cliente. I ragazzi si conobbero, diventando subito molto amici e il sentirsi simili, ugualmente emarginati dagli altri coetanei, dette loro una gran forza aiutandoli a crescere.

Comunque, affinché tutto vi sia più chiaro, è necessario dirvi qualcosa in più. In realtà, basta un solo particolare e tutto sarà evidente.

Il cognome del ragazzo è Babbo. Lui era il terzogenito, nato a qualche anno di distanza dai primi due. La primogenita era la sorella Nadia (detta ¹Na’babba” dalle sue amiche), il secondo si chiamava Michele (¹Mii che babb'” per gli amici) e per festeggiare la nascita del terzo, dopo ben sette anni d’infruttuosi tentativi, quel buontempone del padre aveva deciso di chiamarlo Natale. Capite, Natale Babbo. Ovvero Babbo Natale… Potete immaginare gli sfottò cui era stato sottoposto a scuola e tra gli amici un ragazzino con un simile nome nato in un piccolo paese del sud.

Lui era arrabbiato anche verso la madre, avvertita come una donna debole, più saggia del padre ma incapace di contrastarlo. Succede talvolta nelle nostre famiglie: la persona più potente non è affatto la più consapevole, mentre chi possiede maggiore visione d’insieme e lucidità manca della consistenza per imporre il proprio punto di vista. Ed effettivamente era difficile dargli torto. La scelta del nome rivelava scarsa attenzione nei confronti delle future esigenze del ragazzo, incomprensione dei suoi bisogni, avendo il genitore privilegiato un proprio personale desiderio a scapito del benessere del figlio. Con qualche ragione, dunque, Natale era molto arrabbiato con suo padre, era oppositivo, non gli riconosceva alcuna autorità. Vi erano stati anche episodi di aggressività, sempre rivolta solo verso oggetti domestici. Ma era forte e sicuro solo all’interno delle mura di casa. Fuori, rivelava la sua timidezza ed era ossessionato dalle burle continue cui era sottoposto. Se ricordo bene, fu lui autonomamente a chiedere il consulto di uno psicologo ma, come detto, non gli fui di grande aiuto. Almeno, però, gli parlai di mio nipote.

Mio cugino era un altro mattacchione, tanto disinvolto quanto superficiale. Nella sua quasi innocente stupidità, decise di fare una sorta di esperimento psicologico ante-litteram, utilizzando l’unico- genito come cavia. Mio nipote, infatti, si chiama Vito Vito. Vito di nome e pure di cognome. Quel pazzo di mio cugino (peraltro, uomo di gran successo nel suo lavoro, misteri della vita…), voleva verificare cosa sarebbe successo a una persona potendo immagi- nare che tutti, anche gli estranei sconosciuti, si rivolgessero a lui chiamandolo sempre per nome, mentre, anche nelle situazioni più private e intime, come ad esempio a letto con la ragazza, si sarebbe sentito apostrofato con il cognome. Insomma, il ragazzo, grazie alla prodezza onomastica di quella testa di cavolo del padre, non avrebbe mai saputo se ci si rivolgeva a lui con il nome di battesimo o con il cognome. Una follia assoluta e, cosa ancora più grave, come purtroppo non di rado avviene, è proprio un genitore, ovvero la figura cui spetta il compito maggiore di protezione, a essere l’artefice del maltrattamento psicologico.

Vito subiva analoghe prese in giro dai coetanei, ma in casa era meno baldanzoso di Natale. Trascurato dai compagni, aveva avuto un’infanzia prevalentemente casalinga, trascorsa con la testa tra i libri, provando scarso interesse per le attività sportive e ricreative in genere.

Pur vivendo in un paese non troppo grande nella provincia di Napoli, i due ragazzi non si erano mai incontrati, sia perché ave- vano un paio di anni di differenza, sia perché mio nipote usciva poco di casa. Fu Natale, evidentemente incuriosito dal mio racconto, a prendere l’iniziativa e mettersi alla ricerca del potenziale compagno di sventura. All’epoca del loro primo incontro, Natale aveva venti anni e Vito (di nome) era prossimo ai diciotto. Non so di preciso come siano andate le cose, ma è certo che l’amicizia abbia segnato in meglio la vita a entrambi. La stranezza di avere un problema simile alquanto raro ha creato la magia di un legame speciale e duraturo negli anni. Forse si sono riconosciuti, diversi ma uguali, forse il sentirsi in due ha dato loro una forza sconosciuta, fatto sta che sono cresciuti e sono divenuti uomini affermati.

Hanno costruito sulla loro amicizia la consapevolezza di loro stessi e delle loro capacità.

Mio nipote, nonostante il nome ridicolo, è diventato un affermato architetto. Viaggia per il mondo, è brillante, ha superato indenne la prova cui la stupidità di mio cugino lo aveva sottoposto. Evidentemente in famiglia dovevano essere stati presenti diversi fattori di protezione e, va riconosciuto, il piccolo Vito era sempre stato amato da tutti, a partire dai genitori. Inoltre, certamente va dato merito alle sue risorse personali. Io sono molto affezionato a lui, anche se in privato, anzi in privatissimo, continuo a chiamarlo “Dito dito”, memore del gioco che facevo con lui quando aveva appena un anno.

E Natale Babbo? Dopo anni di opposizione e di rifiuti, si è gradualmente riconciliato con la figura paterna, ormai defunta da anni. E ben prima della sua morte hanno avuto modo di fare pace riconoscendosi il reciproco amore. Inoltre, dei tre figli è sta- to l’unico a proseguire l’attività commerciale del padre, venditore di tessuti pregiati in fiere del settore, che Natale è stato bravo a migliorare e ingrandire. Ha avuto successo personale e pubblico, ha compreso che il padre era stato senz’altro superficiale, ma è riuscito persino a trovare qualcosa di buono e saggio nel suo giocare con la vita, affrontando ogni cosa con leggerezza e provando a sorridere di tutto. Anzi, “Nomen omen”, ora che ha superato la cinquantina ha accettato fino in fondo il proprio destino. Si è fatta crescere una bella e folta barba bianca e si sottopone con pazienza, forse perfino con divertimento, alle innumerevoli richieste provenienti da grandi e piccini, da ottobre in poi. Babbo Natale di qua, Natale Babbo di là, tutti lo cercano e la sua fama va ben oltre il paese d’origine.

Io, a distanza di tanti anni, sono pure contento del mio lavoro.

Mi piace immaginare che, sebbene vi siano state poche sedute, esse non siano state del tutto infruttuose. Di fatto, è successo proprio quanto avevo suggerito. A cosa serve, infatti, essere arrabbiato tutta la vita con un genitore, anche se i torti e le ingiustizie subite sono reali? Pochi riconoscono che il gesto serve a liberare innanzitutto chi perdona e non è a vantaggio prevalente del perdonato. Ovviamente, un perdono, per essere effettivo e non una messinscena con finale a tarallucci e vino, deve prevedere una prima fase in cui avviene il riconoscimento, da parte di tutti, dell’entità reale di un danno. Avvenuto questo passaggio, e solo in seguito ad esso, chi ha subito un torto può elaborare una diversa rappresentazione di quanto avvenuto.

E quindi la vicenda ha una conclusione felice? Sono tutti contenti? Ne siete sicuri? Non volete forse sapere come si chiamano i due figli di Natale Babbo?

Se proprio desiderate conoscere come finisce la storia, prometto di svelarlo la prossima volta. Quando? Naturalmente, a babbo morto…

P.S.: Il racconto è di pura fantasia. Ogni eventuale riferimento a persone reali è assolutamente casuale e involontario. Nessun mio familiare si chiama Vito, di nome, sebbene diversi siano Vito, di cognome. Inoltre, nello scrivere queste pagine, nessun pupazzo di Babbo Natale è stato maltrattato. Nemmeno quelli orribili che si arrampicano sui balconi.

 

Tratto dall’antologia “Racconti per una vigilia”, curata da Alfredo Divenuto
e pubblicato da La Valle del Tempo, dicembre 2023.

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