SANDUK E SUBODH, L’ALTRO MODO DI ESSERE MEDICI

Sanduk Ruit, Subodh Kumar Singh. Consonanti e vocali accostate in modo a noi poco familiare, ma sono i nomi e i cognomi di due medici. Senza frontiere per vocazione e ippocratico giuramento.

Uno, di stanza in Nepal e dintorni cura la vista. L’altro, in India, il labbro leporino e la palatoschisi (una importante malformazione del palato). Senza frontiere curano tutti, basta passare dalle loro parti e non hai via di scampo: se non vedevi ora vedi, se hai un aspetto leporino, con tutte le conseguenze fisiche e psicologiche annesse, ora non più. E se non passi dalle loro parti, faranno il possibile per venire a scovarti.

Le frontiere di cui parlo sono quelle geografiche, ma anche quelle del censo e dell’accessibilità. Vuoi perché povere, vuoi perché lontano da tutti i servizi possibili, vuoi perché in certi luoghi si nasce rassegnati, per molte, moltissime persone del pianeta Terra, non vedere o convivere con una malformazione facciale molto invalidante sono condizioni scontate. Ci nasci e te le tieni. Oppure, nel caso della vista, arriva con l’età o per un incidente o per qualche altro acciacco, e la menomazione te la tieni tanto quanto, certo non è contemplato il tour delle cliniche specializzate.

A meno che tu venga stanato da questi due incredibili esploratori, da questi due Indiana Jones col camice bianco e dalle loro implacabili squadre.

Migliaia e migliaia di vite restituite alla dignità, come sempre dovrebbe essere. Dice Subodh Kumar Singh: “Diventare un dottore mi ha posto nella condizione di poter aiutare molte persone. Volevo rendere migliori le vite dei non privilegiati”.

Sanduk Ruit rincara: “Sono così grato di poter fare la differenza nella vita di così tante persone”, in ben due continenti aggiungo io, Asia e Africa.

Alle nostre latitudini e longitudini, tanto scassare i santissimi con la mission di qui e la mission di là, la mission di su e la mission di giù, ma loro la missione ce l’hanno davvero e se ne fregano se è una missione impossibile. Non esiste missione impossibile. E tutto senza nulla chiedere in cambio, beninteso, nulla se non la certezza di aver speso la propria vita in modo onorevole e nobile, come più forse non si potrebbe.

Entrambi hanno infinite storie da raccontare, storie ebbre di sconforto, rassegnazione e all’improvviso speranza. Nel caso del dottor Sanduk Ruit, ad esempio, commuove il racconto di un ottantenne nord-coreano al quale è stata restituita la possibilità di vedere e con essa la possibilità di rivedere letteralmente di nuovo suo figlio dopo dieci anni. Dice il dottore: “L’uomo che ha subito l’operazione naturalmente è felice per la vista riguadagnata, ma l’intera famiglia all’improvviso torna ad avere un proprio caro che può partecipare di nuovo in modo completo a ciò che accade a casa”.

In entrambi i casi, in entrambi i medici, a colpire è questo senso umano e sociale della cura, attenta in modo scientifico e attenta allo stesso modo alle pieghe interiori e collettive, che proprio in quanto pieghe mai sono delineate in modo rigido e immutabile.

Non sono certo gli unici al mondo, ci sono medici e organizzazioni straordinarie che operano con il medesimo spirito, anche in condizioni più estreme, ma oggi è il loro turno, è solo giusto e sacrosanto che proprio questo spirito venga divulgato, credo.

Senza di loro moltissime persone avrebbero avuto una vita ridotta, come un triste biglietto per uno spettacolo senza spettatori se non sé stessi.E invece, ancora una volta a sorpresa, ecco l’Uomo.

Non siamo macchine, non abbiamo solo bisogno di pezzi di ricambio. Non ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

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