La missiva, che ha fatto il giro del mondo, è scritta da un ragazzo di 13 anni, orfano e senza familiari, accolto temporaneamente al Santobono in vista dell’affidamento ad una struttura residenziale per minori. Il ragazzino ringrazia medici e infermieri per quanto hanno fatto per lui, perché lo hanno fatto sentire a casa e gli hanno donato ciò che egli non ha mai avuto e aveva più desiderato: sentirsi parte di una famiglia.
Giustamente non è dato conoscere né la durata del ricovero, né le sue motivazioni, ma dal testo si intuisce che dev’essersi trattato di un tempo non breve, e fa tenerezza osservare come il ragazzo, nell’affermare il suo affetto per chi lo ha curato, dichiari di temere il giorno in cui dovrà uscire dall’ospedale, consapevole che ciò avverrà. L’ospedale non come luogo del dolore e della sofferenza, come spesso pure è per molti, ma luogo dell’accoglienza e della protezione. L’ospedale-famiglia, l’ospedale-casa, come dice lui.
La lettera è scritta a mano, in occasione dell’esame di licenza media, pure affrontato in ospedale, e oltre alla gratitudine rivela una grande saggezza. Il ragazzo ha compreso – e scrive – che anche nelle situazioni più difficili si “può trovare del buono”. Invece che vittimismo e rabbia, mostra solo affetto e riconoscenza.
Giusto divulgare questo messaggio, sia perché non guasta prendersi dei meriti quando si fa qualcosa di buono, ma soprattutto per ricordare a tutti che non è necessario essere degli eroi per fare del bene: anche fare il proprio dovere, o gesti di semplice gentilezza umana, può produrre grandi risultati. Quel ragazzino è il miglior risultato possibile.