QUEL FRATELLO DELLA VITTIMA CHE AUGURA DI SOFFRIRE A MESSINA DENARO

Sono arrivate notizie di un ulteriore peggioramento delle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro. Le notizie sono arrivate anche a Nicola di Matteo, fratello del piccolo Giuseppe, rapito a 12 anni nel 1993 e poi ucciso e sciolto nell’acido nel 1996 per ordine, precisamente, di Matteo Messina Denaro.

Nicola di Matteo ha detto, tra le altre cose: “Sicuramente da parte della mia famiglia c’è ancora molta rabbia. Noi cosa gli auguriamo? Che possa vivere un altro po’ e soffrire ancora di più e riflettere, ma tanto lui non riflette, sappiamo che queste persone non riflettono. Lo dico perché per noi il dolore non si è mai placato, per lui il dolore finisce con la morte, ma per noi resta e resterà un dolore a vita”.

Uno sfogo del genere, di solito, lascia senza parole. Nel senso che è difficile dire qualcosa. Soprattutto è difficile “fare la predica” a una famiglia che ha dovuto affrontare una tragedia, e quella tragedia, con quelle atrocità mafiose che fanno ancora rabbrividire.

Ma non dire nulla vuol dire prendere atto. E prendere atto di una enormità simile costa.

Primo. Parlarne e cercare di dire comunque qualcosa è tentare di mantenere umano un fatto così disumano. Un fatto resta umano perché qualcuno degli umani ne parla. Anche solo per denunciare che rimane inconcepibile, inaccettabile un assassinio di un bambino, per quei motivi e in quel modo.

Secondo. Perdonare? Il perdono, in effetti, dovrebbe valere sempre e in ogni occasione. Ma c’è un “ma” qui soprattutto, grosso come un macigno. Se il perdono significa dimenticare tutto non ha senso soprattutto in un caso così.  Ricordare si deve, anzi. A gente che ha dovuto affrontare una prova del genere è chiesto di continuare a vivere portandosi appresso questo fardello. La loro scommessa è continuare a vivere, nonostante. E nel vivere cercare di prendersi cura soprattutto degli affetti: volersi bene proprio perché si è fatto l’esperienza di un così brutale volersi male.

Terzo. Esiste una via d’uscita, una difficile via d’uscita. Se si resta nei propri odi, è impossibile rispondere senza odio o spirito di vendetta a una violenza così disumana. Nella Bibbia esiste un tema che risulta spesso inquietante per i credenti. Sono i testi in cui si invoca violenza. Testi inquietanti perché la violenza che si invoca è, molte volte, terrificante. Basta pensare al famoso, terribile, salmo 137. Gli ebrei, esuli a Babilonia, piangono e rifiutano di cantare i loro canti come vorrebbero i loro aguzzini e lo scrittore biblico reagisce: “Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra”. Terribile, non c’è che dire. Ma questa violenza, quella del salmo 137 e tutte le altre, ha due caratteristiche che non bisogna mai dimenticare. Colui che invoca la violenza è una vittima non un aguzzino. Sta subendo lui stesso la violenza. E, soprattutto, la violenza che lui invoca la invoca da Dio: chiede che sia Dio a punire violentemente il violento. Non prende lui l’iniziativa, non esercita lui la violenza.

Questa, mi pare, è una possibile via d’uscita: delegare Dio a punire i colpevoli, anche con le punizioni esemplari che lui solo conosce.

La questione, quindi, alla fine, è se si è capaci di questo coraggioso, difficile gesto di affidamento. Facendo così, quaggiù, la catena delle nostre violenze cessa e, lassù, si afferma la nostra superiore fiducia nel Signore, che è signore di tutti i violenti e difensore tutte le vittime.

E’ una via che, spesso, concede anche la pace. Ma bisogna avere fede. Molta. Quella che, oggi, spesso ci manca.

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