Roberto Mancini può subito dimostrare come contro la Macedonia del nord si sia trattato di un episodio e che il nostro calcio ha dimensione mondiale, come confermano i quattro titoli in dotazione federale.
Ovviamente la provocazione qui si esaurisce. Mancini si deve accomodare, dopo aver ricevuto i doverosi ringraziamenti: i pareggi con Bulgaria e Irlanda erano stati i segnali di fumo nero, ma il marchigiano gode di buona stampa e dunque il trionfo di Wembley è stato esibito come passaporto eterno, trascurando che quello fu una eccezione rispetto ai disastrosi risultati a partire dal 2012 in poi.
Mancini lasci l’incarico, ma la sua non sia un’uscita solitaria, devono seguirlo Gravina e lo staff di tutte le nazionali, così i dirigenti della Lega di serie A, in breve il governo del calcio italiano che non aveva e non ha ancora capito l’emergenza, tecnica, finanziaria, imprenditoriale che ha finito per inquinare e violentare la nostra scuola calcistica.
Mancini è complice di questo sistema: se è vero che ha creato un gruppo, questo non è diventato mai squadra, se non in rarissime occasioni, perché l’Europeo è stato vinto ai rigori e così le partite che ci avevano portato alla finale. La sua vera colpa, in fondo, è aver costruito e spacciato una vuota illusione, con la pretesa che tutti la credessero realtà.
Le scelte di Palermo hanno solo ribadito errori ed omissioni, l’ingresso di un brasiliano di 30 anni a un minuto dalla fine, l’impiego di Chiellini allo stesso minuto per rilevare l’infortunato difensore della Roma, non degno di vestire, a prescindere, l’azzurro, sono stati gli ultimi fotogrammi di un film già visto e previsto.
Non si pensi che con Cannavaro-Lippi o Allegri o Ancelotti la storia della nazionale possa cambiare: questo offre il calcio italiano, ma da questa sconfitta si deve ripartire verso un’altra direzione, strategica, progettuale, disegnata e realizzata da uomini nuovi, però indipendenti dal regime attuale. Serie A a 18 squadre, se non 16, limiti di tesseramento per i settori giovanili. Missione impossibile. E allora, come nel Gattopardo, bisogna cambiare tutto per non cambiare niente.