PER UNA SUBLIME DEFINIZIONE DI IPOCRISIA

Gli ultimi giorni ci hanno offerto due esempi di falsità e ipocrisia altolocati, due esempi emblematici, sotto gli occhi di tutti. Ipocrisia, falsità e forse altro.

Il primo, il più clamoroso e macchiettistico, riguarda il presidente argentino Milei e Papa Francesco. Il Trump al quadrato dell’emisfero australe non ha problemi a cambiare pelle per convenienza: in piena campagna elettorale non esitò a definire il Pontefice un imbecille e, secondo lui, pericolosamente affine a certi sanguinari dittatori comunisti dell’America Latina.

Al Papa, Milei elargisce anche altre tenerezze, ma questo non gli impedisce di presentarsi al suo cospetto come se niente fosse, sorridente e smargiasso, come un amicone di lunga data pronto all’abbraccio, che infatti ci sarà, avendo di fronte colui che per antonomasia dovrebbe porgere l’altra guancia.

Ipocrisia, falsità, voltafaccia e convenienza, tutto con estremo candore e naturalezza. Non ci stupiamo, si fa quel che conviene nel momento in cui conviene, ma l’imbarazzo rimane, anche se è un imbarazzo che ha il difetto imperdonabile di essere il nostro e non quello del presidente argentino.

Il secondo caso, più sottile ma non meno colpevole, dal mio punto di vista. Fabio Roia viene nominato presidente del Palazzo di Giustizia di Milano e nessuno ne contesta i meriti e la legittimità. La moglie, giudice a sua volta con incarichi semidirettivi nel medesimo Palazzo di Giustizia, si dimette per l’evidente incompatibilità tra le due cariche e non nasconde la sofferenza e lo sconforto per il necessario passo indietro che, dice, tocca sempre alle donne, pur riconoscendo gli indiscutibili meriti del marito.

Niente di trascendentale fin qui, se non fosse che nel discorso d’insediamento Fabio Roia esprime scuse e ringraziamento alla moglie, auspicando che “in un momento davvero prossimo si possa fare il contrario, attraverso la creazione di una effettiva parità fra donna e uomo in tutte le articolazioni della società”.

Nell’ascoltare queste parole, l’ingenuo scrivente si chiede semplicemente: se il suo pensiero è davvero questo, perché non fare il grande gesto e rinunciare lui all’incarico, tracciando la strada che lui stesso si augura?

Bastavano le scuse e un po’ di rammarico, invece ha voluto rincarare: verrà un giorno in cui, ma che ci pensi qualcun altro però.

Non vorrei banalizzare a oltranza, perché immagino che tra i due coniugi ci siano stati lunghi e sofferti confronti, ma siccome le scelte sono state poi accompagnate dalle riserve di rito, viene da chiedersi se non sarebbe stato il caso di chiuderla in modo meno melodrammatico, oppure con un semplice ma più coerente: mi spiace per mia moglie, ma era inevitabile.

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