Prima ancora che il tennis rivelasse in tutto il suo splendore Sinner, il basket aveva già il suo campione modello, quello da seguire per come si comporta e non solo per quanto vince. Se Nicolò Melli in questi anni non ha avuto la stessa eco del tennista altoatesino è solo perché il suo sport è in evidente calo di popolarità, inteso come presenza sui media: forma e sostanza, però, sono molto simili.
Per chi non segue le italiche vicende dei canestri, Melli è il capitano dell’Olimpia Milano, con la quale ha appena vinto il quarto scudetto personale, il terzo consecutivo, e pure della Nazionale, che con lui tre anni fa è tornata ai Giochi dopo un’assenza di diciassette anni. Da quando si è chiusa la finale tricolore impazza sui social un suo gesto, tutt’altro che tecnico: al momento della premiazione, ricevendo come capitano la coppa da alzare al cielo per dare il via alla festa, ha invitato i presenti a pazientare e l’ha consegnata per il cerimoniale al più titolato dei compagni, Kyle Hines, anni 38 e una bacheca ricca di trofei e record personali. Un vero e proprio omaggio, un atto di riconoscenza a un amico che lascerà l’attività.
Melli è un predestinato. Intanto perché è nato da una famiglia di sportivi: papà Leo come cestista è arrivato fino alla serie A2 col club della sua Reggio Emilia, mamma Julie è stata giocatrice di volley di alto livello e con la Nazionale americana si è messa al collo l’argento olimpico del 1984 a Los Angeles. Poi perché a quindici anni, giudicato miglior talento della sua età, si è visto premiare da Michael Jordan, il massimo in assoluto per chi frequenta il basket, non solo per un ragazzino. Da lì ha salito tutti i gradini della scala del successo: ha vinto scudetti nei tre Paesi in cui ha giocato (Germania e Turchia, oltre a Milano da dove è partito e dove è ritornato per diventarne una bandiera), ha disputato due stagioni in Nba, con New Orleans e Dallas, ha partecipato alle Olimpiadi. E ha sfiorato l’Eurolega col Fenerbahce, in una finale in cui fu il miglior realizzatore con 28 punti: conquistarla è uno dei grandi traguardi che gli mancano, oltre alla medaglia olimpica per eguagliare mamma Julie.
Se del Melli giocatore si sa tutto, del Melli uomo ci sono meno tracce: a 33 anni il cestista reggiano non ha ancora ceduto alla tentazione di diventare personaggio, preferendo restare persona. Custode della sua privacy, i suoi successi li festeggia in famiglia o con gli amici d’infanzia. Al tempo libero consacra le sue passioni di lettore onnivoro e divoratore di podcast, settore dove si è felicemente misurato quando giocava in America e pure nel ritiro della Nazionale. E’ allergico alle decorazioni, intese come orecchini e tatuaggi. Si espone al pubblico in dosi omeopatiche, fra interviste e comparsate televisive, sui social si limita a celebrare i successi della squadra o a qualche rara immagine di famiglia. E nei rapporti personali non lascia indietro nessuno dei tanti che ha conosciuto, a cominciare da quelli di vecchia data: quando torna a Reggio, è ancora il ragazzino del quartiere con un grande futuro nel basket, che si ferma per strada e ti chiede come stai, non certo l’inarrivabile campione carico di gloria.
Di Melli, ci sono poche tracce anche nei numeri delle partite: a volte spicca per i punti realizzati, ma quasi sempre il peso del suo lavoro occulto, fatto di aiuti per i compagni, di difesa asfissiante e di visioni d’attacco, si fa sentire pur non comparendo nelle statistiche. Come nella serie finale con Bologna, dove alcune sue giocate si sono rivelate determinanti. E poi come ha festeggiato lo scudetto in perfetto stile Melli, prima salendo sulle tribune a baciare moglie, figlia e genitori, poi cedendo la scena all’illustre compagno Hines. Un gesto che racconta meglio di qualsiasi parola, una bellissima dimostrazione di sensibilità. E l’attestazione di una dote che nello sport soltanto i campioni veri sanno abbinare alle qualità tecniche: il rispetto.