L’IPOCRISIA MONDIALE: IL CALCIO DOVREBBE BOICOTTARE IL QATAR, DOVE TUTTI FANNO AFFARI

Una mattina/mi son svegliato/e ho trovato l’invasor. Qatariota. Una mattina ci siamo svegliati e abbiamo trovato giornali, televisioni, radio (surreale la trasmissione di giovedì 17 novembre su RMC, tra risatine e battute, due ore di sondaggio sull’opportunità dei Mondiali in Qatar: scusatemi Monica Sala e Max Venegoni, l’argomento era serio o è stato ridotto a una burletta per scelta?), invasi zeppi di indignazione, polemiche, proteste.

Tutti, il giorno dopo lo stop ai campionati caserecci, hanno scoperto che il calcio planetario stava per trasferirsi per un mese in un Paese retrogrado, repressivo, razzista, omofobo, spietato, colluso, integralista, vergognoso, sul cui territorio hanno eretto stadi sultani con aria condizionata in campo e sugli spalti, monumenti allo sfarzo e alla modernità, costati migliaia e migliaia di morti, oltre che milioni e milioni di dollari. Quei morti erano per lo più emigrati, sottopagati, sfruttati, spremuti e gettati come limoni.

È tutto vero, sia chiaro, quel che si dice della penisola che ospiterà per un mese il pallone planetario. Tutto vero e non solo, come testimonia il fatto che nel 2017 persino Arabia Saudita ed Emirati Arabi (insieme con Bahrein, Egitto, Maldive e altre nazioni musulmane) avevano rotto i rapporti con il Qatar, accusandolo di sostenere gruppi integralisti come Hamas e appoggiare la destabilizzazione iraniana. L’isolamento del Qatar non consisteva nel non salutarsi se ci si incontrava per strada o rimandare la posta al mittente: prevedeva l’applicazione di sanzioni economiche, la chiusura dei confini terrestri, marittimi e aerei alle compagnie e ai cittadini qatarioti, nonché l’espulsione di quest’ultimi dai Paesi del Golfo. Poi, nel 2021, la risoluzione della crisi, mediata da Kuwait e Stati Uniti.

Per darvi un ultimo esempio di dove sono a giocare gli altri, perché noi italiani calcisticamente molto corretti abbiamo disertato prima i Mondiali in Russia, poi anche questi in Qatar, l’ex giocatore della nazionale qatariota e ora ambasciatore dell’evento Khalid Salman ha definito l’omosessualità un “danno mentale”. E di conseguenza evidentemente i gay vengono trattati da quelle parti.

Ora, per rendere giustizia e denunciare l’immoralità ideologica, politica e civile della penisola araba, verrebbe chiesto al calcio e a chi lo frequenta di alzare gli scudi, fare clamore, persino disertare. Un po’ come avvenne per la finale di Coppa Davis nel 1976 in Cile, un po’ come è avvenuto per varie edizioni dei giochi olimpici tra boicottaggi e guerre fredde, che ora rimpiangiamo assai in quanto solo fredde, appunto…

Allo sport viene ciclicamente chiesto di non fare ciò che invece politici, diplomatici, commercianti, industriali, turisti, faccendieri occidentali fanno liberamente e quotidianamente in paesi “discussi”: gli affari loro. Infischiandosene bellamente dell’immoralità del foraggiatore.

Un sistema più efficace, ma infinitamente più coraggioso, sarebbe un gesto, un semplice gesto. Che so, indossare una maglietta simbolica come quella rossa che Adriano Panatta e Paolo Bertolucci vestirono in quel 1976, così lontano ma sempre così attuale. Scrivendoci magari sopra qualcosa di diretto e di accusatorio. Perché è vero, come ha scritto nella sua lettera pilatesca Gianni Infantino (presidente UEFA), che “il calcio non può accollarsi tutti i problemi del mondo”, ma di farne conoscere qualcuno grave, al mondo, quello sì, il calcio lo potrebbe fare. Eccome. Pagando dazio, si intende, ed è qui – come sempre – che si annida il vero problema.

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