di MICAELA UCCHIELLI (psicologa e psicoterapeuta) – Leggo un’intervista: Emma Marrone, giovane donna e talentuosa artista, parla di maternità. Le sue parole mi colpiscono. Sono coraggiose, provocatorie e offrono un importante spunto di riflessione.
La questione della femminilità, e dunque della maternità come sua possibilità, muove il mio lavoro da anni, un lavoro personale e professionale. Cominciato da figlia, proseguito da allieva, approdato alla docenza, passato attraverso le strettoie della mia analisi personale, della maternità, e approdato, infine, al lavoro clinico con le pazienti.
Non mi è possibile, dunque, leggere le parole di Emma senza prestarvi un ascolto particolare. Doppiamente particolare, come donna e come terapeuta.
“La maternità non è un obbligo”. Primo enunciato che vorrei commentare.
Emma ha ragione, la maternità dovrebbe essere, sempre, una scelta soggettiva e mai la risposta ad una domanda che proviene da fuori, domanda di completamento immaginario dell’essere femminile. Sono passati davvero molti anni, da quando Freud pensava che diventare madre fosse un modo di rimediare all’invidia del pene, da parte della donna.
Se c’è, infatti, qualcosa di straordinariamente fertile nel femminile è proprio la possibilità di fare di quella mancanza, una risorsa. Della differenza, forse chiamarla così è meno ambiguo, un valore. E di sostenere, infine, tale differenza da una posizione femminile.
L’indipendenza, di cui Emma parla, smarca da tempo le donne da quel posto in cui l’ideale sociale maschile, ma anche di un certo femminile, diciamolo pure, vorrebbe collocarle. Angeli, un po’ vintage, del focolare.
L’indipendenza è tuttavia tale solo quando non scivola sul piano della rivendicazione. Quando ne facciamo una bandiera da sventolare armate fino ai denti, ogni volta che la trasformiamo in una crociata, contribuiamo, a mio avviso, ad accentuare quella stessa differenza che vorremmo, erroneamente, annullare. Il nodo della questione è infatti l’appiattimento della differenza dei sessi in uguaglianza. Fare come gli uomini diventa allora un modo di non accogliere la diversità. Mentre accogliere è un verbo femminile. Accogliere nel proprio corpo un’altra vita, ad esempio.
Questa differenza non dovrebbe mai rappresentare uno svantaggio, nè un dovere, ma neanche trasformarsi in quell’esaltazione grandiosa della potenza materna, quel dare la vita, reclamata poi, spesso, come esclusiva proprietà. E qui arrivo al secondo e al terzo enunciato.
“L’età delle madri è cambiata. Oggi abbiamo la possibilità di congelare gli ovuli.”
L’età delle madri è cambiata, anche questo è vero. Ho avuto il primo e unico figlio a 37 anni, mi hanno definita primipara attempata e non mi sono certo offesa. Era una verità. Lo è tuttora.
Oggi le lancette dell’orologio biologico si sono spostate un po’ più in là, ma il tempo resta un limite con cui occorre fare i conti. Del resto, se non siamo disposti a perdere qualcosa, perché fare figli?
La maternità, la genitorialità in generale, comporta un decentramento. E’ esperienza di spossessamento. Una madre sa bene che, già nel tempo della gravidanza, il corpo non le appartiene più in via esclusiva. Nessun’altra esperienza ce lo mostra in modo altrettanto radicale. La nascita segna un taglio ulteriore. E il taglio del cordone è spesso operato dal padre. La maternità è infatti un’esperienza che va dal due al tre.
Congelare gli ovuli non rimanda forse al due? Alla coppia madre-figlio, senza il padre? Fatta ovvia e dovuta eccezione per le ragioni di ordine medico, non è forse un atto che esclude il partner dell’amore?
“L’amore non mi basta”, canta Emma, e “se amarmi poi ti passa?”. Ma l’amore è, sempre, l’esperienza di un rischio assoluto, senza alcuna garanzia di durata. Incontro di due desideri, capace di umanizzare la venuta al mondo di un figlio, scaldandola di senso. E così, non posso fare a meno di domandarmi oggi, come e soprattutto se questo senso umano potrà resistere, dentro al freddo di un anonimo congelatore.