LA VITA VERA DI GIGI

Da Beckenbauer a Riva. Un’azione di gioco, la fine di una grande storia, nel breve trascorrere di giorni, emozioni, stupori.

Luigi Riva ha chiuso la sua esistenza rifiutando l’operazione al cuore, cosciente che il resto della vita non meritasse altre sigarette, altri silenzi, altre compassioni. Ha segnato un’epoca irripetibile, quella dei calciatori legati a una sola squadra, respingendo i miliardi dei Moratti e degli Agnelli, gente del nord che lui aveva lasciato per l’avventura sull’isola.

Leggiuno fu la sua terra di nascita, l’infanzia dura, suo padre Ugo, reduce della prima guerra mondiale con medaglia di bronzo al valore, fece mille mestieri, sarto, barbiere e infine operaio metallurgico e una scheggia di ferro schizzata da una fornace lo trafisse come una spada, così terminò la sua vita quando Gigi aveva nove anni. Edis, la madre, se ne andò quando Gigi ne aveva compiuti sedici e poi la sorella Candida spenta dalla leucemia.

Ferite profonde mai rimarginate, pensieri di un bagaglio mai svuotato, anzi sempre presente e forse accentuati dall’isola. Quando incominciò con il Laveno fece capire di avere un sinistro secco e potente, non erano, i suoi, i muscoli gonfiati di certi fenomeni contemporanei, ma erano fili di acciaio e scaricavano già potenza. Lo videro quelli dell’Inter che gli spedirono a casa la convocazione, ma i capi del Laveno stracciarono il telegramma.

Andava a pesca e stava con gli amici sulla spiaggia di Reno, lago Maggiore, una fetta di paradiso infantile che lui conservava in una cartolina come l’eremo di Santa Caterina del sasso. Lo convocò la nazionale juniores e Gigi, in una partita contro la Spagna, segnò il gol della vittoria, 3 a 2. Quelli che il calcio capirono che il ragazzo potesse avere un futuro, quelli che il calcio stavano in tribuna e si chiamavano Arrica, Silvestri e Tognon, dunque il Cagliari, da qui assegno di milioni 37, in anticipo sui 50 offerti dal Bologna di Dall’Ara.

Gigi non sapeva nemmeno dove fosse la Sardegna, i giocatori del Cagliari venivano insultati al grido di “pecorai”, Riva arrivò da incazzato in quella città, l’infanzia aspra e l’abbandono del presepe di amici lo avevano stordito anche se l’avventura del grande calcio poteva riservare sorprese.

Così fu, scudetto e gol, i soldi arrivavano dai premi partita più pesanti del salario di base e i colpi di Giggirriva, una parola sola, garantivano un fine mese di tranquillità e abbondanza, al punto che Martiradonna, compagno di stanza, gli chiese, quasi pregandolo: “Gi, resta qui così finisco di pagare la cucina”.

Bei tempi, si usa dire e scrivere, Gigi era bello come una statua di marmo, un profilo da guerriero e infatti il teatro portava il nome di Amsicora, leggendario eroe sardo che si oppose ai romani e, dopo l’ultima sconfitta in battaglia, decise di togliersi la vita e non di arrendersi.

Luigi, non Gigi lo chiamava Brera, che odiava diminutivi e vezzeggiativi, Luigi mandava in visibilio tifosi e donne, ebbe una storia forte con Gianna Tofanari, due figli ma silenzio totale, nessun pettegolezzo, nessuna pubblicità secondo usi e scostumi contemporanei.

Così è stata sempre la vita di Riva, mai opinionista in tv, solo in radio, mai vecchia gloria da compatire ma coerente con se stesso, uomo prima che campione, sigarette mille e parole poche, Cagliari, il Poetto, l’Alfa 1600 color carta da zucchero, la Ferrari Dino donatagli come premio clamoroso, nulla di più, nulla di meno.

Tre volte gli spezzarono le gambe giocando con la nazionale, ma sempre si rialzò ripensando ai dolori di giovinezza, alle fughe notturne dai collegi di Viggiù e di Varese, ai pomeriggi a pescare nel lago. Brera lo chiamava Brenno, eroe temerario, ma dopo una vittoria prepotente sull’Inter a San Siro, il maestro decise di soprannomarlo Rombo di Tuono, fu come il timbro, il marchio di fabbrica a denominazione controllata. Quasi un cupo rumore in lontananza, dopo la saetta a stracciare il cielo, questi erano i gol di Gigi, fiamme, tumulti.

Credo che l’ultima sigaretta abbia avvolto e nascosto il suo sorriso che ricordava la luce del mare dinanzi al quale amava sostare in silenzio. Così ha voluto spegnere una vita bellissima nella sera in cui due squadre italiane giocavano altrove, un football che lui non amava più, finto, esagerato, di tuoni senza lampi, in una terra di soldi volgari, con la farsa del minuto di inutile silenzio osservato da figure che nemmeno sanno chi sia stato Luigi Riva da Leggiuno.

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